di FELICE FORESTA
“Guaglio’, dai che oggi prendiamo le vacanze.” Chissà quanti ragazzi, su quel treno sghembo che s’inerpicava lungo la schiena della collina, avranno accarezzato la riposante dolcezza di una sveglia che, per qualche giorno, avrebbe risparmiato i loro sogni. Quel 23 dicembre del 1961 erano tanti, come ogni giorno. Quel 23 dicembre del 1961, erano felici nei loro soprabiti sdruciti, odorosi di camino e libertà. Cantavano, ridevano, e pensavano al tempo di un bacio più lungo. Di un abbraccio più stretto. Quelli agli ultimi posti avrebbero preso in giro il macchinista. Alcuni parlavano dell’Inter di Herrera. Altri, degli esami di fine anno che avrebbero sancito, per molti, un destino profugo tra le brume del nord. Qualcuno era triste. Perché, a volte, l’imminenza della felicità nasconde una scheggia di tristezza. E fu così. Di colpo, tutti, poco più di settanta, diventarono tristezza e ricordo. Una tragedia immane. Un graffio che si fa squarcio e sangue. Morte. Irreversibile. Fato odioso. Perché, quando muore un ragazzo piange una famiglia, e un paese.
Quando muoiono tanti ragazzi, piangono gli dei. E quella volta piansero tanto. Ma così tanto da ingrossare anche la Fiumarella. Il fiume piccolo e pudico che ricama gli orli di Catanzaro e che, quel giorno, si trasformò in un enorme conca di dolore. Forse, troppo in fretta è stata messa da parte la tragedia dei ragazzi della Fiumarella. A Catanzaro, la giornata di oggi dovrebbe essere sosta e riflessione. Perché la memoria è dovere e monito. E, prima ancora, insegnamento. Quello che tanti ragazzi che andavano incontro alla vita ci hanno messo sotto i nostri occhi distratti. Abbiamo il privilegio di andare a lavoro o a scuola quasi sotto casa. Abbiamo acqua calda, e riscaldamento tutto il giorno. Abbiamo pane e dolci, così tanto da buttarli. Abbiamo tutto. E siamo, invece, ostaggio della nostra insana ambizione. Che porta all’insoddisfazione, ma non alla morigerata saggezza, del niente. Pensiamoci, ogni tanto, almeno oggi, a quei ragazzi. Se non con la preghiera, almeno con la paura. Che stiamo sbagliando.
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