di FRANCO CIMINO
L’ho pensato davvero: dopo la morte assurda di Maria sul luogo di lavoro, sul suo treno, non avrei più scritto. Almeno per un po’. Di tutto e di niente, tra gli innumerevoli argomenti che la cronaca continuamente mi offre, stimolando in me riflessioni ancora più profonde di quelle che, noiosamente, ormai, pure per il mio pensare, da sempre faccio. Sono stanco. Di scrivere. Stanco di scrivere del dolore, intendo. Ché ormai di questo soltanto si dice in un mondo pieno di guerre, di miserie e povertà.
E in una società sempre più dominata da aggressività e di quella violenza che fa scorrere sangue mentre morte e lutti genera quotidianamente e che fa il paio con il male più grande, l’indifferenza. E anche con un crescendo di crudeltà che aggrava l’orrore, che, però, subito scompare per lasciare il posto alla vita divenuta ordinaria. Ma non posso fermarmi. Oggi, no. E come potrei dinanzi alla morte prematura e inattesa di una grande personalità della cultura e della “ politica” catanzarese e calabrese? Ieri la notizia, un’altra che non avremmo voluto apprendere. Muore in un letto del nostro ospedale, Nino Mustari. Una gran bella persona, un uomo straordinario in sensibilità e generosità. Un cittadino onesto. Un intellettuale profondo, che, tra storica dei luoghi, letture intense, scritture rapide e inarrestabili, analisi della realtà con lo sguardo a come potrebbe essere migliore, ovvero tra memoria antica e visione del futuro, tra ricordi e nostalgie, ha navigato tutti i mari. Un mare anche suo, quello che ha navigato raggiungendo il porto. E quello che non ha navigato, restando fermo al molo. Il mare dei suoi amori e delle sue passioni, ha navigato, attraversando tempeste e marosi, e la distesa calma e riposante dopo quelli, che l’ha portato al porto sicuro. La moglie tanto amata, la cui perdita è stata devastante quanto foriera di quel senso di smarrimento che affatica più della lunga traversata. Le due figlie adorate e la nipotina gioiello, che gli riempivano il cuore sempre battente, anche quando il suo fisico cominciava a cedere. In ospedale, medici e infermieri dicono del coraggio e della dignità con cui ha lottato per vivere ancora. E della serenità con cui ha vissuto il passaggio finale. Mai un lamento, mai una sollecitazione al personale, mai una richiesta di ridurre almeno la sofferenza fisica, che sarà stata durissima. Ancora in quel posto della sofferenza e della speranza, a preoccuparsi più degli altri pazienti che di lui e del suo stato peggiorativo. Lo stesso atteggiamento mantenuto nella vita ordinaria. Sempre gli altri, i giovani che avevano difficoltà a completare gli studi e quei due, di cui si è saputo solo per la commozione che ha comunicato in ambito strettissimo della sua privatezza, che non avrebbero potuto permettersi il vestito nuovo per la seduta di laurea. Le persone in difficolta, i poveri già noti e quelli che lo erano diventati, anche nella cerchia delle sue larghe conoscenze, e che per dignità, ancora resistente l’intervenuto stato, nascondevano. Gli immigrati, che tanto gli ricordavano i nostri emigranti che andavano lontano per per fare la stessa cosa di questi che “ invadono” le nostre coste, procurare il “pane buono” per i propri figli. Ovvero, se partiti ragazzi loro stessi, un futuro degno in cui, tra l’altro, potessero mettere a frutto i personali talenti, ad onore e vanto di questa terra, che pure li ha costretti ad andar via. Ché la Terra è madre, che non si abbandona e non ti abbandona. Col cuore mai! E i bambini.
Ah, i bambini! Il suo costante impegno. Questo suo donarsi totalmente a loro, rappresentava la sintesi più emblematica della sua cultura della vita e del mondo. I suoi anni, tutti, spesi nella scuola, dove non fece il maestro e il professore perché il suo servizio lo rese direttamente da quella cattedra assai impegnativa, per come la viveva lui, che era la direzione didattica. E lungamente prima che le riforme della cosiddetta modernità la trasformassero in dirigenza. Dietro quella particolare cattedra Nino elaborava tanti progetti didattici in una idea complessiva della scuola in cui al centro vi dovevano essere, sì, i ragazzi, ma anche i docenti, attraverso un nuovo modo di stare in cattedra, la loro. Fu ideatore e formatore. Formatore, soprattutto, di nuovi maestri e nuovi prof. Tanti furono suoi allievi, molti di loro distinguendosi per capacità e impegno nel vasto panorama degli insegnanti, pure raggiungendo ruoli apicali. Nino fu un dirigente attivo. La sua “cattedra” si portava, nel modo in cui gli riusciva, presso gli stessi scolari e studenti, con i quali costruiva un rapporto diretto. E individuale, se posso dire. Nel senso, cioè, che una classe non era il numero “ anonimo” della stessa, ma la somma di ogni singolo bambino, al quale si doveva guardare e “ insegnare, prima che venisse considerato parte del gruppo, quale spazio della socialità più importante. I bambini, la cui bellezza intera era doveroso tutelare e valorizzare perché da essi, e da questa, sarebbe passato davvero, o non in termini sterilmente generazionali, il futuro dell’Umanità e quello della bellezza del pianeta. L’Unicef, cui per anni incalcolabili egli ha dato l’altro tutto di sé, è stato uno degli spazi in cui questa sua visione del mondo e questo particolare amore per i bambini, si sono potuto riempire di gesti, idee, fatiche, slanci di sentimenti, pienamente suoi. Si è sempre distinto, anche lì, per l’umiltà con cui ha “ indossato” i ruoli importanti ricoperti. E senza mai avanzare sul proscenio per esibire ambizioni personali o uno strumentale senso di sé, magari, come capita spesso e nei molteplici ambiti delle rappresentanze sociali e istituzionali, associative, per “ elefantizzare” , con la carica, il proprio io, in altri, già egocentrico. Ovunque sia andato, qualsiasi carica avesse ricevuto, qualsiasi ruolo ricoperto, Nino Mustari, il direttore, è rimasto sempre umile. Il suo spirito di servizio prevaleva su tutto. Anche nella sua breve parentesi politica, la direzione dell’Ardis e l’assessorato alla Cultura e Pubblica Istruzione al Comune di Catanzaro, a metà degli anni novanta, mantenne questo modo di operare, che pur non divenendo, purtroppo, esempio da seguire, si rivelò come lo stile del buon politico e del signore della politica. Era ancora giovane allora, eppure non utilizzó quei ruoli per interessi personali in cui collocare facilmente ambizioni di carriera politica e amministrativa. Fu chiamato, io me lo ricordo bene perché ne fui tra gli ispiratori, per mettere ordine e moralità in quei luoghi, e quando lo si vide “ quasi come un fastidio”, ha salutato e senza fare “chiasso”se ne è uscito con la stessa dignità con la quale vi era entrato. Per andare a lamentarsi altrove e lì cercare altro di compensativo? No. Per tornarsene a casa, come segno di protesta o delusione? No. Per rinchiudersi, rancoroso e indispettito, nella sua scuola, fortilizio di altro potere? Assolutamente no. Ha continuato a servire le persone e la società. Lo ha fatto anche attraverso la Chiesa, e diocesana e parrocchiale, e il volontariato laico o quello alla religiosità collegato. La spinta maggiore gli veniva, oltre che dal suo carattere mite e altruista, dal suo spiccato senso civico, fortemente guidato della Costituzione, e dalla fede profonda, in cui acceso era lo spirito del Vangelo. I due testi lo portarono instancabilmente a fare di più. A donare sempre di più. Era un intellettuale, Nino. Un intellettuale dal sentire profondo. Di quelli che a me piacciono tanto. Sono quelli che adagiano la mente sul cuore per farli pulsare all’unisono. Quelli che pensano e amano, nel contempo. E dicono e scrivono di ciò che amano. Nino ha scritto tanto. Timido e riservato, si sentiva più a suo agio con la scrittura, che non con il parlare. La parola, sgorgata dal cuore ma curata con lo studio attento, è sempre stata uno strumento e una passione. Il suo scrivere era, pertanto, asciutto, rapido, chiaro nella semplicità, privo di ridondanze e retorica. E incisivo, affinché fosse per tutte le letture. Ché la scrittura per lui doveva raggiungere chiunque, il più erudito e il meno colto. Il lettore più esigente e quello appena arrivato ai libri. I suoi sono stati molti. Ha scritto e pubblicato tanto. Negli ultimi anni lo ha fatto con un ritmo sempre più veloce. Come se una specie d’ansia del tempo fuggevole lo prendesse, insieme alla paura di non riuscire a dire il tanto che sentiva in petto. La sentiva tanto che non ha avvertito in tempo quel dolorino che gli affaticava il passo e il respiro e nel petto si muoveva senza fare rumore. Scriveva Nino, incessantemente. Di tutto e, in particolare, di un bisogno irrefrenabile: legare la memoria al tempo. E, nel tempo, il passato e il presente, quale atto di generosità verso il futuro. Non era uno storico, Nino, ma in questo sentire c’era il senso della storia. E l’idea che chi possa, avendone i mezzi, debba farsi testimone della storia, di quella piccola piccola che concorre a costruire quella più grande. Qui, e lungo il fiume delle sue parole, emerge l’altro suo amore immenso, Taverna, la sua città e quella di tutta la sua originaria famiglia. Di lei, Taverna, ha scritto e scritto e scritto. La sua penna, i suoi sentimenti. I suoi libri, l’atto di gratitudine più grande. La sua ricerca storica, un segno della testimonianza del suo amore per questo luogo davvero straordinario. Tanto bello e “ affascinante” da diventare il paese di chiunque abbia la fortuna di viverlo anche solo per poco tempo. Ovvero, anche per la sola visita alle chiese monumentali, dove si trovano le opere, tra le più importanti, del genio pittorico di Mattia Preti e qualcuno del fratello Gregorio, anch’egli pittore straordinario. Se di Taverna, la Calabria e noi con essa, possiamo saperne di più, lo dobbiamo a Nino e a pochi altri tavernesi illustri, uno in particolare, suo coetaneo e suo amico, che continuerà quest’opera d’amore verso la Città bella e ricca, di storia, di patrimonio culturale. E, ancora, e per fortuna, della bellezza del paesaggio dolcemente disteso sui suoi piccoli ed eleganti monti. Nino ci lascia.
Nel silenzio del suo andare e nel rumore del nostro dolore. Il dolore della perdita è grande per tutti. Quello di figlie e fratelli e amici intimi è incalcolabile. E perciò non ne parlo. Ma di quello che ho “sentito”nelle parole di autorità e persone, e di quello che ho visto, anche ieri in chiesa, negli occhi di chi è andato a salutarlo, potrei dire tanto. Mi fermo, però, su una soltanto. È “vuoto”. Il dolore di questa perdita crea un vuoto largo e profondo. Potremmo tutti insieme, riempirlo, tuttavia, con il ricordo dell’umile grandezza di quest’uomo grande e umile. Che per non abbandonarci ci lascia un libro che lui non ha avuto il tempo neppure di prendere tra le mani. Il suo ultimo libro, che non vuole si chiami romanzo, ma racconto. Il titolo dice tutto, “Padre”. Lo leggeremo. Sarà una storia inventata dal vero. Una vita romanzata da vita vissuta in qualche ragazzo di un tempo che lui sa. Un ragazzo che ha perso il padre e forse ancora lo cerca. Chissà dove o nell’irraggiungibile Aldilà. Un testamento morale, di certo. L’ha scritto, con il suo ultimo afflato, Nino, il padre. In quelle pagine, forse, soprattutto, figlio.
Franco Cimino
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