di AGAZIO LOIERO
La scorpacciata di canzoni moderne e inascoltabili offerteci quest’anno da San Remo, è stata attenuata, almeno nella prima serata, dalla presenza di Al Bano e Massimo Ranieri. I quali si sono brillantemente esibiti, insieme a Gianni Morandi, con “motivi antichi e tantu tiempo fa”, come recita, quella sì, una splendida canzone napoletana.
Confesso che da spettatore infedele oltre la prima serata non sono andato. Mi sono accontentato delle brevi sequenze trasmesse dai telegiornali e da altri programmi televisivi che includevano qualche immagine del festival. Mi è toccato vedere un giovane cantante che prende a calci i fiori della riviera che di San Remo costituiscono il simbolo. Ma non è di questo che voglio scrivere, ma di quello che mi è capitato di osservare a Roma nei giorni successivi all’evento musicale.
Un teatro molto vicino alla casa dove abito ha messo in bella mostra dei manifesti con il volto e il nome di Lucio Battisti. Attratto da quella foto mi sono avvicinato al botteghino del teatro dove ho scoperto che Battisti non era tornato in vita, come per un attimo avevo sperato, per festeggiare il prossimo 5 di marzo i suoi 80 anni. Quelle foto si riferivano ad una “cover”. Una rappresentazione, dunque del personaggio e delle sue canzoni. I biglietti sono andati a ruba. Ancora. Sempre in questi giorni mi è capitato di riascoltare alla radio qualche sua canzone, alcuni quotidiani hanno pubblicato pagine molto belle su di lui. Difficile dimenticare che Lucio Battisti negli anni ’70, in quell’oscura stagione di violenza e di sangue, ha rappresentato per moltissimi italiani un’ancora di evasione.
L’inaspettato suo ritorno di questi giorni sulla scena mediatica ha suscitato in tante persone una zaffata di nostalgia. Chi è più in là con l’età ricorda che in quegli anni lontani,accanto a tanti cantanti di qualità, che calcavano la scena, Lucio Battisti giganteggiava. Miscelando le parole di Mogol con la sua musica, l’artista dava vita a componimenti di rara bellezza in cui poesia, ritmo e melodia si accordavano in forma così perfetta da dare spesso l’impressione che la fontedell’ispirazione emanasse, non da due, ma da una sola anima. Canzoni come “Innocenti evasioni”, “I giardini di marzo”, “Non è Francesca”, “Una donna per amico” non solo diffondevano armonia ma fungevano da antidoto a quel tempo ideologizzato fino allo spasimo. Una breve digressione.
All’epoca della morte del cantante, ho colto sulla bocca di un’autrice di qualità, Lidia Ravera, una frase liberatoria: “Sono stata ligia a ogni indicazione della Sinistra extraparlamentare, tranne che su Battisti”. Quella frase descriveva più di mille articoli il clima degli anni settanta, quelli della contestazione estrema, che talvolta sfocia nel terrorismo. Abbiamo attraversato in quel tempo lontano un cono d’ombra che ha investito tante vite, che non permetteva di muoversi e respirare in libertà, come pure tanti giovani avrebbero desiderato. Il mito collettivo, l’enfatizzazione della classe operaia, la derisione dei sentimenti individuali, così profondamente incistati nella vita degli uomini, ma definiti riduttivamente, nella moda del tempo, piccolo-borghesi, la facevano da padroni. Poco o nessuno spazio era di conseguenza concesso all’ambito privato che conserva fin dalla notte dei tempi un valore sommo nella psicologia dell’individuo.
All’epoca purtroppo era obbligatorio nutrire non solo sogni comuni, ma anche pensieri comuni. Si dà il caso però che questi sono per loro natura anarchici e quindi difficilmente imbrigliabili. In tale contesto claustrofobico in cui ci si sentiva imbracati come in una corazza medioevale esplose in assoluta controtendenza Lucio Battisti con il suo canto libero. Fu una folgore. Bellissima la voce, bellissima la musica, poetiche le parole di Mogol, brillanti gli arrangiamenti e certi falsetti inconfondibili di cui solo lui era capace. Ciò non di meno qualche voce isolata lo considerava stonato e quando tale inverosimile etichetta appariva al grande pubblico un sacrilegio, Lucio Battisti era più sbrigativamente definito fascista. Veniva brutalmente incasellato secondo le due sole categorie in cui una certa sinistra extraparlamentare divideva il mondo: proletari e, appunto, fascisti. Che un partito di centro governasse con la sua maggioranza ormai da qualche decennio il paese, non scalfiva l’accennata antinomia dettata dalla piazza.
Lucio Battisti per un bel po’ di tempo non tenne in alcun conto quell’etichetta. Cantava gli amori con le sue variegate sfaccettature, specialmente quelli perduti, destinati a lasciare tracce profonde nella vita di un individuo, ma raccontava anche storie belle, talvolta fuori contesto, diffondendo antichi aromi “Che ne sai di un viaggio in Inghilterra, che ne sai?”
Poi ad un certo punto qualcuno, in cerca di rissa, cominciava a fischiarlo ai concerti. Tentò di resistere per un po’ di tempo, confortato dalle vendite altissime dei suoi dischi a dimostrazione di quanto gli italiani lo amassero, ma presto decise che il vaso fosse colmo. Anticipato da Mina, che rappresentava per qualità, voce e popolarità il suo versante femminile, si ritira dalla scena. Si rifugia nella solitudine. Roso dalla malattia, su cui la sua compagna di vita erge un muro invalicabile, dopo breve tempo, all’età di 56 anni, la morte se lo porta via. Come spesso capita a noi italiani che solitamente ci accorgiamo della grandezza di un personaggio solo al momento della sua morte, il paese rimase per molte settimane inconsolabile. Non s’era mai vista una sofferenza di popolo così duratura.
Quella morte prematura fu vissuta dal pubblico quasi come una punizione che l’Italia non meritava. Anche se lui, la morte, l’aveva già da tempo poeticamente dissacrata, raffigurandola come un passaggio sereno in una delle sue canzoni più belle: “Sogno un cimitero di campagna, e io là, all’ombra di un ciliegio in fiore senza età, per riposare un poco due o trecento anni…”
Un talento che il festival di San Remo con i suoi cantanti in voga in questo nostro tempo fa rifulgere di una luce più intensa
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