Al voto al voto nel vuoto nel vuoto...

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Franco Cimino
  08 novembre 2019 18:05

di FRANCO CIMINO

È arrivata la data. Lunga e lontana. L’ha comunicata il presidente, l’altro ieri, a margine di un impegno politico. Pertanto, fuori dall’ambito strettamente istituzionale. Non si sono udite nell’aria grida di giubilo. Il silenzio è lo stesso di di sempre. Quello che ha accompagnato la lunga mancanza della data e quello della nostra terra che lentamente muore. Si vota, dunque, per il rinnovo del Consiglio Regionale, il 26 Gennaio, lo stesso giorno già da tempo previsto per l’Emilia Romagna. Sarà per diversi motivi, ma di certo, direttamente o non, Mario Oliverio ha voluto fare un ultimo favore, oltre che a se stesso e al suo esercito di non rientranti in Consiglio, al suo partito, quasi ex. Il favore è quello di non anticipare un risultato, quasi certamente negativo, che possa influenzare il voto nella traballante regione storicamente la più rossa. Ne trarrà egli un grazie rigenerante da parte del PD, nell’ultima sua aspettativa di essere il candidato dello stesso, specialmente nel caso che i Cinque Stelle davvero rinunciassero a ripetere l’operazione Umbria? No, di certo no. Oliverio ha ricevuto nettamente il peggiore benservito, quello che neppure si riserva ai domestici infedeli, la sua questione è chiusa. Allora, tutto questo tempo di attesa e il conseguente rinvio delle urne in una regione che avrebbe già dovuto votare a cosa è servito? Al presidente uscente, per prepararsi meglio ad una partecipazione autonoma alle consultazioni elettorali.

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Vedere “chi fuma” , quanti ne potrà trattenere e possibilmente candidare, dei numerosissimi “clientes” che ha largamente beneficiato in questi cinque anni da re, assoluto e solitario. A tutti gli altri, partiti e persone interessate, questo ritardo è servito per la stessa identica cosa: prendere tempo, litigare il più non posso e scegliere il candidato a presidente che sarà rimasto in piedi nella rissa, aspettare la disponibilità dei tanti aspiranti consiglieri pronti a saltare sul carro di chi apparisse il vincitore. Ma chi può apparire oggi il vincitore? È difficile poterlo anche solamente intuire. Il PD è in crisi irreversibile. Chiunque candidi, nella rottura con il presidente uscente caricato di rancore contro di esso, è già vestito di debolezza. L’ipotesi di camuffarsi in un civismo guidato dai pentastellati (già gravemente in difficoltà anche di consenso), che imporrebbero un loro candidato, lontanissimo dalla politica, ne peggiorerebbe la considerazione anche della sua stessa base e renderebbe scontata la sconfitta dell’intera coalizione. Il centrodestra, che considera già vinta, e con largo margine di vantaggio, la battaglia per la Cittadella, se la prende ancora comoda, e non decide. Lo farà, sempre a giorni forse a ore che non passano mai, il vertice romano.

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Si dice che siano alla ricerca di un buon nome, forse anche di genere femminile, purché non abbia fatto politica ed appaia nuovo. Meglio se non capisse anche nulla di Calabria e di problemi, così che il vecchio che si nasconderà nelle liste elettorali e nella padronanza partitocratica possa continuare a governare alla vecchia maniera. L’impressione che ne ricavo personalmente, che confermerebbe la mia previsione di molte settimane addietro, è che il gioco vero sarà tra i due Mario cosentini, se manterranno il coraggio di restare candidati senza e contro i loro partiti di appartenenza. Senza e contro le iniziative delle Procure, che ancora una volta si stanno assumendo pesanti responsabilità nei confronti della politica e delle sue decisioni, di fatto determinando se non le candidature le rinunce obbligatorie alle stesse. Di certo, manterrà la posizione annunciata Mario Oliverio, perché rispetto al sindaco di Cosenza non ha più nulla da perdere. A meno che i fratelli Occhiuto non decidano di seguire Mara Carfagna in un un’altra avventura politica. Cosa assai probabile, perché la posta in palio è molto più alta di un seggio al Parlamento anche se suscettibile di proiezioni governative. La Calabria è ancora un pozzo senza fondo di risorse pubbliche, che potranno ancor più fortemente essere impiegate a sostegno di quel sistema strutturato in cui l’intreccio tra consenso e potere, potere e affari, affari e poteri nascosti. Occorre ricordare che qui al Sud, in Calabria in particolare, dove la politica muove quasi tutto ciò che è visibile, chi governa e chi (si) promette di farlo assume impegni che valgono come le vecchie cambiali. Impegni forti verso classi o “ corporazioni”, gruppi sociali dalle considerevoli risorse economiche e associazioni di vario genere, non escluse quelle culturali, educative o dichiaratamente etiche, che dal potere ricevono più di quanto, a fini individuali, chiedono, in cambio del silenzio sulla sfascio e il degrado. In una Calabria in cui manca la Politica e la cultura sta a guardare, oppure resta comodamente seduta dentro le biblioteche senza mai esporsi verso una battaglia di reale rinnovamento delle classi dirigenti e di moralizzazione delle istituzioni, non soltanto politiche, le elezioni decidono tutto. Un solo giorno, un solo colpo e via, l’asso delle carte napoletane figlia tutto.

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La Calabria è qui che perde prima che in qualsiasi altro luogo. Perde prima di ogni competizione. Trent’anni e più di rovine complete, di peggioramento della condizione culturale e della qualità dei politici e della politica, di degrado morale, di promesse non mantenute, hanno prodotto il danno più pesante, il definitivo allontanamento dei calabresi dalle istituzioni. Più di ogni altra cosa, poté danneggiare la coscienza democratica dei calabresi la continua promessa, ad ogni legislatura, del cambiamento. Qualche faccia nuova, magari più giovane di quella precedentemente più vecchia, i soliti programmi prestampati, e il solito inganno. Il nuovo è risultato esattamente come ciò che si dichiarava di sconfiggere. La Calabria che arretra e la politica che scompare. L’unica alternanza finora realizzata qui da noi, e nel colore del governo regionale, è stata questa. Ad ogni elezione si cambia maggioranza perché il voto, qui da noi, è diventato sempre più voto contro. Contro chi ha governato, male, prima. Alla politica oggi non ci crede più nessuno. La perdita di fiducia si è trasformata in rassegnazione. L’elettorato si è diviso esattamente in due. Metà si reca a votare pur sapendo che nulla cambierà, e però cercando di ottenere dai governanti almeno qualche piccola convenienza personale o di gruppo. L’altra metà, convinta che nulla potrà mai cambiare, diserta le urne e lascia che tutto resti come il sistema immodificabile vuole. In Calabria, più che nel resto dell’Italia, il danno per la democrazia, mai qui cresciuta abbastanza, è enorme. La politica è sempre più una questione di potere. La dialettica non è più tra maggioranza e opposizione, il sale della democrazia, ma forza anonima che si agita, contrapponendosi al suo interno, tutta intorno al potere. I luoghi della decisione in luogo di quelli della discussione. Non esiste più l’opposizione, considerata categoria vecchia e inutile. Non servono gli ideali per grandi progetti, ma programmi tascabili per piccoli problemi e grandi interessi.

Qui, la dinamica della formazione della volontà popolare, si è invertita da tempo. Non si cerca più il consenso per la conquista del potere, ma il potere per la cattura del consenso. La decisione è la chiave interpretativa di tutto. La filosofia, la poesia, la morale, la scienza, la stessa ragione ragione, non c’entrano affatto. La mente e il cuore che ne possiede almeno una di queste, non vengono considerati. Conta solo chi decide. Non la forza della ragione o dei sentimenti, ma l’uomo forte. Il ventisei gennaio, nell’anno 2020 tondo e rotondo, questa Calabria sarà portata al voto da chi ancora non dice i nomi dei candidati, ma che domani, proprio domani, da Roma o da qualche salotto settentrionale, ne inventerà uno qualsiasi. Tanto nessuno dirà nulla e tutti l’accetteranno. Tra rassegnazione e perdizione, speranza negata e ignoranza conclamata, la “ rivoluzione” può ancora attendere a lungo. Chi avrebbe dovuto annunciarla non parla più. E chi avrebbe potuto farla, la racconta come una favola a una scolaresca di bambini che, a bocca aperta, stanno ad ascoltare. 

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