di CARLO MIGNOLLI
Il 20 febbraio al Teatro Comunale di Catanzaro e il 21 febbraio al Teatro Grandinetti di Lamezia Terme andrà in scena “La morte della Pizia”, l’adattamento teatrale del celebre racconto di Friedrich Dürrenmatt, per la prima volta rappresentato in Italia, nella programmazione teatrale di AMA Calabria. Questo brillante e grottesco testo, pubblicato nel 1976 e tradotto da Renata Colorni per Adelphi, è stato portato sul palcoscenico grazie all’adattamento di Patrizia La Fonte e Irene Lösch, per la regia di Giuseppe Marini e con una produzione firmata Progetto Goldstein.
Nel ruolo della sacerdotessa Pannychis Undici troviamo proprio Patrizia La Fonte, affiancata da Maurizio Palladino nei panni del sacerdote Merops Ventisette. In questa rilettura che intreccia ironia e riflessione, il pubblico sarà condotto nel cuore delle vicende mitiche di Edipo e Giocasta, rilette alla luce del caos delle informazioni pilotate, tanto attuale oggi quanto all’epoca di Dürrenmatt.
Patrizia La Fonte, attrice e co-autrice dell’adattamento, ci ha raccontato in un’intervista la genesi dello spettacolo, le tematiche presenti, il suo approccio al personaggio della Pizia e la sua visione di questo potente racconto grottesco che, tra profezie, manipolazioni e rivelazioni, ci invita a riflettere sulle fragilità del nostro modo di conoscere il mondo.
L’INTERVISTA
Sarà in scena a Catanzaro e a Lamezia con “La morte della Pizia”. Le chiedo innanzitutto di parlare di questo progetto, ma in particolare quali sono stati i maggiori stimoli e le principali difficoltà nell’adattare un’opera letteraria così ricca e complessa per il palcoscenico.
«Dunque, intanto la scelta è stata determinata dall’improvvisa, fulminante passione che ho avuto per il personaggio di Pannychis Undici, che è la Pizia del romanzo breve di Dürrenmatt, pubblicato da Adelphi. L’idea di fare un adattamento teatrale pensavo sarebbe stata agevole, invece si è rivelata piuttosto complessa. Da un lato come lavoro effettivo di scrittura, e dall’altro perché un testo di questo genere, di questo autore, richiede l’approvazione dell’editore, della traduzione e, infine, degli eredi di Dürrenmatt, uno scrittore svizzero di grandissimo spessore. Ci è voluto parecchio tempo, ma alla fine abbiamo ottenuto tutti i permessi necessari, e devo dire che questa è la prima volta che il testo diventa un’opera teatrale a tutti gli effetti. In passato ne sono state fatte letture o messe in scena parziali, ma questo è il primo caso di un allestimento completo e “ufficiale”, con tutti i bolli. L’adattamento è stato impegnativo perché la traduzione originale, pur bellissima, era molto letteraria. Il teatro però non vuole letteratura: ha bisogno di un linguaggio che sia via via più graffiante, emblematico e suggestivo, ma soprattutto fisicamente percepibile sia dall’attore che lo interpreta sia dal pubblico che lo ascolta. Di base abbiamo utilizzato la traduzione di Adelphi, ma ho lavorato insieme a Irene Lösch, madrelingua tedesca, che conosce benissimo Dürrenmatt. Questo ci ha permesso di sintetizzare in modo efficace alcuni passaggi: ad esempio, ci sono punti in cui abbiamo reso con due battute qualcosa che nel romanzo occupava venti pagine. È stato un lavoro accuratissimo, di riallestimento e taglio, completato dal regista Giuseppe Marini, che è riuscito a rendere il testo il più sintetico possibile, mantenendo le suggestioni e le emozioni senza sovraccaricare il pubblico di troppe parole».
Parlando proprio dello spettacolo, ci sono tanti temi importanti che emergono: dalla responsabilità morale al cinismo. Qual è, secondo lei, il tema più significativo? E cosa rende questa storia attuale? Magari anche il tema delle fake news, che è centrale nel testo.
«Direi che proprio il tema delle fake news è uno dei motori principali di questo spettacolo. Se c’è qualcosa che collega in modo evidente il mondo antico al nostro tempo, è proprio quanto sia inafferrabile la verità. Se uno non ha assistito di persona a un fatto, non può essere certo che quello che gli viene raccontato corrisponda al vero, soprattutto quando le notizie arrivano da fonti non dirette, ma da entità misteriose. Per gli antichi queste fonti erano gli oracoli, i veggenti, gli indovini. Per noi sono i social, la televisione, la radio e le altre fonti di informazione che ci bombardano da ogni parte. Anche nella stessa notizia, a seconda di come viene raccontata, si possono trovare valenze diverse. Questo può avvenire per scopi precisi, premeditati, politici o culturali, ma anche casualmente. Nel caso de “La morte della Pizia”, ci sono due voci emblematiche per il mondo antico. Una è quella della sacerdotessa Pizia, che risponde dall’oracolo di Delfi ispirandosi, in teoria, ad Apollo. Ma nel racconto di Dürrenmatt, la Pizia dice verità in modo casuale, bizzarro, talvolta inspiegabile. L’altra voce è quella di Tiresia, un veggente di professione, che invece viene istigato dai potenti a dare risposte mirate, che abbiano un senso specifico a seconda degli scopi politici di chi lo consulta. Queste due figure si confrontano in scena perché, secondo il destino tracciato dal racconto, muoiono nello stesso momento. È come se ci fosse un appuntamento sotteso alla fine di un’epoca, quella degli oracoli. E nonostante i loro tentativi di manipolare la verità, il mondo continua a brancolare nel buio, senza riuscire ad afferrare la sostanza delle cose. Questo caos tra il bene e il male, che cambia esito a seconda di come viene manipolato o perseguito, rende leggibile oggi il mondo antico».
Lei interpreta Pannychis, un personaggio affascinante e centrale. Come si è preparata per questo ruolo?
«Con tantissime prove, faticosissime, sotto la guida inflessibile di Giuseppe Marini, che mi ha spinta a tirar fuori ogni sfumatura del personaggio. Nel romanzo, gli altri personaggi sono evocati dalla Pizia, ma noi li vediamo in carne e ossa, perché in scena, con soli due attori, portiamo in vita sei personaggi. Preparare questo ruolo ha significato cambiare completamente il mio aspetto fisico, il modo di camminare e perfino la voce. La Pizia ha una voce roca, da cornacchia. Non è alta e slanciata, ma curva, vecchia, malconcia, confusa, bizzarra, inelegante. Abbiamo lavorato su un trucco improbabile per il viso, che contribuisce a creare un personaggio così particolare. Poi, nel corso dello spettacolo, il personaggio cambia fisicità, aspetto e voce, per dare vita a figure come Giocasta o la Sfinge. Anche il mio partner, Maurizio Palladino, affronta una trasformazione simile. Lui interpreta il sacerdote dell’oracolo di Delfi, ma è anche Edipo e soprattutto Tiresia».
Ha citato Giuseppe Marini, la cui regia è stata fondamentale. Le chiedo anche del lavoro di Paolo Coletta per le musiche originali e di Helga Williams per i costumi: quanto sono stati importanti per creare l’atmosfera dello spettacolo?
«Assolutamente fondamentali. La regia di Marini aveva un’idea precisa: lo spettacolo doveva avere un colore grottesco, con elementi distorti e sopra le righe. Questo ha ispirato la creatività di tutti. Paolo Coletta ha composto musiche appositamente strane, bizzarre e suggestive, mentre Helga Williams ha creato costumi che evocano epoche e mondi diversi, senza rimandare in modo diretto alla Grecia antica. Anche la scenografia e il disegno luci hanno contribuito: non c’è quasi nulla che richiami esplicitamente la realtà del mondo greco, a parte forse un mezzo colonnato. Tutto il resto è evocativo, universale, senza riferirsi a un tempo o a un luogo specifico. È stato un lavoro di squadra incredibile, che ha reso lo spettacolo profondamente creativo e, a tratti, tragicamente comico».
Per concludere, cosa spera che il pubblico calabrese porti a casa dopo aver visto “La morte della Pizia”?
«Spero innanzitutto che si diverta e che resti affascinato. Forse anche che rifletta un po’ su quanto sia difficile fidarsi delle cose che ci vengono dette. Ma, più di tutto, vorrei che cogliesse l’umanità fragile dell’essere umano, magari con un sorriso indulgente. Nel caos del mondo, è quasi impossibile trovare la verità, ma almeno possiamo imparare a riconoscere il bene e il male, per quanto oggi sia più difficile che mai».
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