di ANTONIO BEVACQUA
Era davvero necessario attendere che deflagrasse la polemica sulla cosiddetta “autonomia differenziata”, la manovra “Robin Hood al contrario” contenuta nel progetto leghista portato avanti dal suo esponente più intransigente nei confronti di alcune aree del Paese e padre di altre diverse iniziative non sempre all’altezza della costituzionalità, per far si che la politica, gli intellettuali e i giuristi arrivassero finalmente ad occuparsi di una Nazione spaccata in due?
Non era già molto evidente, ancor prima della scellerata riforma del Titolo V della Costituzione, colpevolmente varata da una maggioranza di centro-sinistra, la circostanza che il Mezzogiorno aveva ingiustamente accumulato ritardi decennali nei confronti del resto d’Italia?
Non avrebbe già dovuto quella classe politica, economica e intellettuale del Paese occuparsi di colmare quel gap che di anno in anno, di lustro in lustro, andava sempre più ampliandosi, allontanando il Sud in tema di servizi sanitari, offerta scolastica, servizi sociali, trasporti, infrastrutture dalle altre regioni italiane ed europee?
Oggi che il fondo del barile nazionale è stato ben raschiato e i territori più ricchi sono molto preoccupati di non riuscire a mantenere tutti i privilegi accumulati (evidentemente anche a danno del Sud), si discute, e al Senato siamo già al voto, di autonomia regionale e di livelli essenziali delle prestazioni, laddove il primo tema costituisce l’obiettivo e il secondo funge da cortina fumogena per mascherare i movimenti che si vogliono adottare.
Mi vengono in mente quei quattro poveri capponi che mentre Renzo portava all’avvocato “s’ingegnavano a beccarsi” ignari del comune destino che li attendeva, e immagino che se avessero avuto voce o penna avrebbero disquisito, ciascuno in “autonomia”, rose, fiori e prospettive del proprio, “individuale”, futuro.
Purtroppo, in questo dibattito fatto anche di interventi contraddittori, se non sfacciati, alcuni partiti che in altra epoca sarebbero stati meritatamente assoggettati ad autodafè per aver maldestramente messo mano nel 2001 alla Costituzione, eliminando dalla Carta persino la parola “Mezzogiorno”, spiace notare la parola di autorevolissimi ed apprezzati costituzionalisti secondo i quali, fissati lep, non ci sarebbe motivo di temere una spaccatura del Paese, tutt’altro, poiché secondo loro una maggiore autonomia farebbe addirittura bene alle regioni meridionali (che poi è anche la tesi di alcuni Presidenti di regione del Sud), costituendo la scossa per crescere.
Ma siccome per l’attuazione dei lep servirebbe investire da parte dello Stato una cifra, assolutamente non disponibile, che si aggirerebbe intorno ai 180 miliardi di euro, ecco venire in soccorso della “manovra spacca Italia” una nuova tesi politico-costituzionale secondo la quale poiché legare i lep all’autonomia differenziata renderebbe la riforma stessa impossibile da attuare per via della sua insostenibilità economica, a ben vedere, l’articolo 116 della Costituzione non imporrebbe la propedeutica definizione dei lep.
Tutto gira e girerà, dunque, sui lep, l’acronimo che individua i livelli essenziali delle prestazioni, una formula alquanto bizantina per dire, forse ingenuamente, che l’Italia dovrebbe essere tutta “uguale” nei livelli dei servizi offerti dai cittadini ma che invece, io temo, in quel termine “essenziali” si nasconda un subdolo contenuto di “minimi” che, come è lapalissiano, è cosa ben diversa da “uguali”. Per cui mi chiedo: quale sarebbe un corretto livello essenziale delle prestazioni sanitarie: quello attualmente offerto in un ospedale calabrese o quello di cui si può fruire in una struttura lombarda? E quale potrebbe essere il parametro per definire il livello “essenziale” del servizio ferroviario: quello verificabile sulla tratta Milano-Roma o quello esistente sui binari da Salerno a Reggio Calabria?
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