di RITA TULELLI
Negli ultimi mesi le cronache italiane raccontano sempre più spesso di ragazzini che, armati di arroganza e senso di impunità, si muovono in gruppo compiendo aggressioni, rapine, atti vandalici. È il fenomeno delle baby gang, bande giovanili che si formano nei quartieri più fragili delle città e che mettono in allarme famiglie, istituzioni e forze dell’ordine. Dietro a questi comportamenti non c’è solo voglia di trasgressione. A spingere tanti adolescenti verso le gang ci sono fattori complessi: famiglie fragili o assenti, mancanza di prospettive, scuole che faticano a intercettare il disagio, quartieri senza spazi di aggregazione. In questo vuoto, il gruppo diventa rifugio e identità.
I social network fanno il resto: filmare risse e aggressioni significa ottenere like, notorietà e il rispetto dei coetanei. Dentro il branco vigono codici e gerarchie precise: c’è un leader che comanda, ci sono prove di forza da superare, spesso con episodi violenti considerati veri e propri riti di iniziazione. La contrapposizione al mondo adulto è forte: genitori, insegnanti e istituzioni vengono visti come nemici, non come punti di riferimento. Le forze dell’ordine intensificano i controlli, ma la repressione da sola non basta. Gli esperti lo ripetono: serve prevenzione. Scuola e comunità devono tornare a offrire alternative concrete, spazi di socialità, sport e cultura che canalizzino le energie dei ragazzi. Anche le famiglie hanno un ruolo cruciale: senza un sostegno educativo solido, il rischio di devianza cresce.
Progetti di quartiere, centri giovanili, figure di riferimento credibili dagli educatori agli allenatori possono fare la differenza. Il fenomeno delle baby gang non è un problema solo di ordine pubblico. È lo specchio di una società che lascia indietro i più giovani, privandoli di prospettive e punti di riferimento. La risposta, dunque, non può che essere collettiva: istituzioni, famiglie, scuola e comunità devono lavorare insieme per restituire a questi ragazzi un futuro diverso dal branco.
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