di PAOLO CRISTOFARO
“M'ha dittu: vedi ca tu sì u propritariu. Io ‘on sapìa mancu duv’era u cosu. C’haj dittu: Io no." Con questa frase, pronunciata durante un interrogatorio dal collaboratore di giustizia Domenico Iaquinta, si apre un nuovo e complesso scenario, svelato dall'inchiesta "Basso profilo", della Dda di Catanzaro, che riguarda Squillace. "Mi ha detto: vedi che sei tu il proprietario. Io non sapevo neanche dove fosse il coso. Gli ho detto: Io no!". Questo botta e risposta che Iaquinta ha riportato ai Pm, si riferisce ad un colloquio avuto dallo stesso con il maresciallo dei Carabinieri della stazione di Squillace superiore.
Il collaboratore di giustizia Iaquinta, nel 2014, era stato convocato in caserma a Squillace dopo il rinvenimento, a Squillace Lido, in Via Laerte, presso gli uffici della "Global Service", di una bottiglia con benzina, di un accendino e di un pacchetto di fazzoletti. Elementi che ai Carabinieri hanno fatto pensare, immediatamente, ad un atto intimidatorio. I Pm nelle carte dell'inchiesta annotano infatti che: "in data 17/09/2014 alle ore 08.30 circa, personale del Comando Stazione CC di Squillace, interveniva in Squillace Lido alla via Laerte n° 7 ove rinvenivano una bottiglia contenente del liquido infiammabile, un accendino e un pacco di fazzoletti di carta, il tutto veniva posto sotto sequestro. Delle operazioni compiute veniva avvisata l’autorità giudiziaria competente, che in data 18/09/2014 convalidava il sequestro operato dal personale della Stazione CC di Squillace".
Dall'indagine sono emersi due elementi cruciali, anche rispetto a quell'intimidazione. Il primo, come ammesso dallo stesso Domenico Iaquinta, titolare ufficiale del locale della "Global Service", è che neppure lui sapeva dell'ufficio, nonostante fosse l'intestatario. "Io ‘on sapìa mancu duv’era u cosu", ha riferito Iaquinta. "Io non sapevo nemmeno che avìamu nu studio, na sede a Squillace marina, vicinu nu barriceddu", continua. E poi riferisce ai Pm di quanto gli era stato riferito, una volta rientrato a casa dopo il colloquio in caserma, da altri sodali dell'organizzazione in merito al presunto atto intimidatorio. "Poi m’ha vistu Pierpaolo a mmia [Pierpaolo Caloiro], m’ha dittu: Vida ca me l’ha dittu Antonio ma vaju u ci mintu, ce l’amu misu io e Antonio Gallo dice... per fare cadere a colpa supa atri ca ni fannu atti intimidatori".
"Mi ha visto Pierpaolo e mi ha detto: Vedi che me l'ha detto Antonio di andare a metterli, li abbiamo messi io e Antonio Gallo, per far ricadere la colpa su altri che ci fanno atti intimidatori", afferma. In pratica Iaquinta svela ai magistrati il fatto che quell'intimidazione era falsa, creata da loro stessi per dare l'impressione di essere addirittura vittime della criminalità organizzata. "Io ‘on sapìa nenta, ‘on sapìa mancu ca chidu ufficio era intestato a mmia dha". Lo stesso proprietario Iaquinta, non conosceva neppure l'esistenza dell'ufficio. Questo dato fornisce un quadro dell'oscura rete di società gestite dalle 'ndrine attraverso prestanome e manovalanza, spesso ignari persino di cosa avvenisse nelle varie aziende sparse per la Calabria, totalmente controllate dai clan.
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