di EDOARDO CORASANITI
Oltre sette ore di requisitoria, circa 600 pagine argomentate con documenti, foto, intercettazioni e tutto ciò che per il pubblico ministero Andrea Mancuso porta alla richiesta di condanna all'ergastolo (con isolamento diurno di 18 mesi) per Vito Barbara (31 anni) e Rosaria Mancuso (65 anni), sorella dei boss Giuseppe, Diego, Francesco e Pantaleone Mancuso, mentre 20 anni di reclusione è la richiesta per Domenico Di Grillo e marito della Mancuso, 73 anni e 12 anni per la figlia Lucia Di Grillo. Tutti e quattro sono imputati nel processo per la morte di Matteo Vinci, 42enne biologo, ucciso con una autobomba il 9 aprile 2018 a Limbadi (Vibo Valentia) e per il ferimento del padre, Francesco Antonio. Il pm non ha riconosciuto le attenuanti generiche, tenuto in considerazione dell'efferatezza, dei mezzi, tempi, luogo, e delle modalità e della gravità dell'omicidio.
Alla Corte d’Assise del Tribunale di Catanzaro presieduta dal giudice Alessandro Bravin, il sostituto procuratore Andrea Mancuso riassume il lavoro emerso durante il processo nato dall’indagine “Demetra” della Dda guidata da Nicola Gratteri, facendo leva sulle minacce, le tensioni fortissime, le violenze subite dai coniugi Vinci iniziate molto prima dell’esplosione. E non solo parole o lite tra vicini (definiti come “cani”) per i confini, ma anche un tentato omicidio ai danni di Francesco Vinci. “Picchiato e minacciato con pistola e un forcone”, descrive il pm di fronte ai giudici togati, a quelli popolari, alle difese e ai genitori di Matteo Vinci, Francesco Antonio e Rosa Scarpulla. Entrambi sono costituiti parte civile e assistono costantemente alle udienze. Il sostituto procuratore si concentra anche per smentire quanto prodotto dalle perizie difensive, ritenute dal magistrato assolutamente inattendibili, contraddittorie e molto lacunose.
L'esplosione che determinato alla morte di Matteo Vinci e al ferimento del padre
Un lungo capitolo della requisitoria è dedicato a quello che è successo il 9 aprile. “Gli imputati erano convinti di averlo ucciso, lo hanno anche abbandonato, esanime, morto, quasi morto”. Per poi passare al profilo del padre di Matteo Vinci, Francesco, ferito dall’esplosione: “ Vede il figlio morire, ed è inerme. Grida “aiutatelo, salvatelo, tiratelo fuori”. Ma il sedile di Matteo si era ribaltato e nelle fiamme non si vedeva più quando sono arrivati i soccorritori. Così, continua a vivere la situazione drammatica di sapere che il figlio sta morendo carbonizzato senza poter fare niente”. Una rappresentazione dettagliata di quanto è accaduto che tiene conto della natura, collocazione e tipo di ordigno. Dettagli tecnici su come è stata piazzato sotto la macchina: Almeno un chilo e mezzo di polvere pirotecnica, vicino al sedile di guida.
Analizzati a lungo i rapporti tra Antonio Criniti, Filippo De Marco e Vito Barbàra: i primi due sono indagati in un altro processo denominato “Demetra 2”, con l’accusa di essere gli esecutori materiali della bomba. A novembre scorso il Tribunale del Riesame di Catanzaro ha confermato la misura cautelare detentiva ma ha annullato ad entrambi due capi di imputazione: l'omicidio e l'estorsione. “Sono tante le conversazioni che mettono in luce il loro rapporto. Erano pienamente inseriti nelle vicende che riguardavano Barbara, ne conoscevano le dinamiche e sono loro stessi a chiedere di commettere l’omicidio. Dai tabulati telefonici emerge che le telefonate tra Criniti e Barbara si intensificano nei giorni antecedenti al 9 aprile, giorno della morte di Matteo Vinci”, spiega il ragionamento della Procura che fa combaciare le circostanze con le dichiarazioni del pentito Walter Loielo, il quale durante il processo ha ammesso di essere stato contattato da Di Grillo e Criniti per eseguire un omicidio.
Il pm inoltra cita le parole del collaboratore di giustizia Emanuele Mancuso, figlio de “L’ingegnere”. Le sue dichiarazioni rafforzerebbero la certezza che l’esplosivo arrivasse dalle Preserre, zona di residenza di Criniti. Riflettori accesi sull’aggravante mafiosa: “In tutti i delitti vi è una ostentazione, in un territorio come quello di Limbadi da parte di una famiglia che domina l’intera provincia, della propria caratura criminale. Ecco come si atteggiano da mafiosi gli imputati. Preliminarmente si ritiene utile citare le sentenze che sussiste l’articolazione criminale dei Mancuso: le operazioni “Dinasty”, “Rima”, “Genesi”, “Tirreno” “Black Money” , “Costa Pulita”, “Rinascita Scott” .
Tutto riconducibile ad un obiettivo: il dominio su tutto il territorio. E più si alza la resistenza e maggiore è la violenza che si scatena. Un po' come diceva Emanuele Mancuso: "Chi si mette contro di noi viene raso al suolo".
Ora la parola passerà alle difese, rappresentate dagli avvocati Fabrizio Costarella, Giovanni Vecchio, Mario Santambrogio, Francesco Capria, e Gianfranco Giunta, che dal 18 novembre proveranno a smontare le accuse argomentate oggi dalla Procura.
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