Cannistrà: "La diffamazione online e sui social, quando la penna digitale viola la legge"

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images Cannistrà: "La diffamazione online e sui social, quando la penna digitale viola la legge"

  13 dicembre 2024 15:31

di EMANUELE CANNISTRA'

Viviamo in un’era digitale in cui i social media sono diventati strumenti di comunicazione accessibili a tutti, ma spesso si trasformano in armi pericolose nelle mani sbagliate. Sempre più frequentemente si leggono articoli e post sui social, spesso scritti da pseudo-giornalisti, che lanciano accuse infondate e insinuazioni malevole contro cittadini onesti: avvocati, medici, dipendenti pubblici e altre categorie professionali che, senza motivo, diventano bersaglio di attacchi personali. Questi attacchi non sono casuali: spesso nascono per compiacere qualche “amico” rancoroso o frustrato, in cerca di vendette personali o di una misera visibilità. Tuttavia, è fondamentale ricordare che la libertà di espressione non può mai tradursi nella libertà di diffamare. Chi si presta a tali azioni non solo commette un abuso, ma infrange chiaramente la legge.
La diffamazione è regolata dall’articolo 595 del Codice Penale italiano. Si verifica quando una persona, comunicando con più individui, offende l’onore o la reputazione di un altro. L’aggravante si applica quando l’offesa avviene tramite mezzi di comunicazione di massa, come i social network, con pene che possono arrivare fino a tre anni di reclusione o a una multa di 516 euro. L’uso dei social media amplifica l’impatto del reato: un post diffamatorio può raggiungere migliaia di persone in pochi minuti, aumentando i danni per la vittima e aggravando la posizione del colpevole. Inoltre, per chi si definisce “giornalista”, c’è un ulteriore obbligo di verifica e responsabilità. L’articolo 21 della Costituzione tutela la libertà di stampa, ma non giustifica in alcun modo l’abuso di questo diritto per calunniare o diffamare.
Per chi lavora nel campo del giornalismo, ci sono regole specifiche stabilite dal Codice Deontologico dei Giornalisti, che richiede il rispetto della verità sostanziale dei fatti e l'obbligo di non ledere la dignità delle persone. Chi infrange queste norme non solo rischia sanzioni penali, ma anche disciplinari, come la sospensione o la radiazione dall’albo. L’articolo 13 del Testo Unico dei Doveri del Giornalista vieta esplicitamente la diffusione di contenuti che possano danneggiare la reputazione altrui, soprattutto se la motivazione è personale o legata a interessi di terzi.
Un fenomeno altrettanto preoccupante è quello che si osserva nei gruppi Facebook o su altre piattaforme: individui che si uniscono per alimentare vere e proprie campagne di odio, scatenando un linciaggio mediatico contro una persona o una categoria specifica. In queste situazioni, la responsabilità non ricade solo su chi scrive il post, ma anche su chi gestisce il gruppo e consente la diffusione di contenuti diffamatori, come stabilito dal Decreto Legislativo 70/2003 che regola le attività online.
Gli attacchi diffamatori non sono semplici parole: possono rovinare la reputazione, compromettere la carriera professionale e causare seri danni psicologici alla vittima. Chi subisce tali aggressioni ha il diritto e il dovere di difendersi, presentando una querela entro tre mesi dal momento in cui è venuto a conoscenza dell'episodio. La libertà di espressione non è un permesso per l'odio e la calunnia. Chi usa i social media o la stampa per "buttare fango" su cittadini onesti commette un reato che non solo distrugge vite, ma mina anche la fiducia nella giustizia e nella convivenza civile. Le leggi esistono e devono essere applicate, affinché i responsabili di queste campagne di odio rispondano delle loro azioni. Il diritto alla dignità e alla reputazione non è negoziabile.

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