"A cinquant’anni dall’emanazione della legge 354/75 'Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà', dobbiamo riflettere profondamente e con metodo d’indagine scientifica sulla delicata questione carceraria". A dirlo, il Garante dei detenuti della Calabria, Giovanna Russo.
"Le narrazioni che si fanno del carcere devono essere equilibrate perché finiscono per essere determinanti tanto nell'approccio dell'opinione pubblica, quanto dei decisori politici. Oggi siamo al punto di non ritorno e l’unica via percorribile è quella di riequilibrare tutto ciò che non funziona, vi sono delle anomalie ataviche e strutturali. Dobbiamo necessariamente dare un senso concreto e il senso delle cose lo si offre partendo da un esame oggettivo della realtà fotografandola così com’è. Che tutto il sistema penitenziario stia collassando è evidente ed è sotto gli occhi di tutti. Che il sovraffollamento non costituisca garanzie e non consenta tutele piene ed effettive dei diritti della persona ristretta è altrettanto visibile, ma dobbiamo altresì dire che lo stesso lede anche gli operatori e la loro mission istituzionale. Che i suicidi, ma si trattasse anche solo e soltanto di una vita, ci fotografano l’incapacità nell’ultimo decennio di interrogarsi realmente sull’annosa questione. Ma cosa è successo realmente?", si interroga.
"Due i macro argomenti e si perdoni la sintesi che non rende giustizia né dona la scientificità che daremo in un successivo contributo", sottolinea Russo. Il primo, "il demandare e non programmare con una certa regolarità la politica carceraria. Il non eseguire i necessari investimenti, nel tempo, ha portato al punto di non ritorno soprattutto nell’ultimo decennio o poco più. L’ordinario sfugge a causa della necessità di doversi focalizzare sulle continue emergenze e questo a danno di tutti. Poi, il fatto che "oggi la mafia comanda sempre di più dal carcere. Una criminalità, quella organizzata, che si è dimostrata sempre più pervasiva quando lo Stato non era presente con un reale programma di civiltà della pena. Questo preoccupa perché espone i detenuti più deboli e vulnerabili rispetto a atteggiamenti di sopraffazione criminale che si registrano negli istituti di pena.
A suo giudizio, "nell’anno giubilare della Speranza dobbiamo lavorare con corresponsabilità interistituzionale per la pacificazione delle carceri che serve a garantire la sicurezza, ma soprattutto a programmare, in sicurezza, serie attività trattamentali, rieducative e di reinserimento. Abbiamo il dovere di ripensare gli spazi della pena umanizzandoli, le architetture siano sempre più rispondenti alle effettive esigenze dell’umanità reclusa. Ma soprattutto, in un complesso quadro così delineato, dobbiamo ripartire dal giorno zero per una rinascita d'insieme del microcosmo carcerario. Occorrerà lavorare con impegno rilanciando con proposte che non erodano la certezza della pena e operino, al contempo, quella necessaria attenzione alla persona ristretta. È una responsabilità di tutti che incombe sulle nostre coscienze, non possiamo tirarci indietro. Dobbiamo lavorare in equipe multidisciplinari senza se e senza ma. Gli anni delle importanti criticità penitenziarie che mettono a rischio l’intera società, dentro e fuori le mure, sono ritornati".
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