Catanzaro, l’avvocato Conidi: “Quando la pornografia diventa un tour: libertà, dignità e limiti della legge”

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  03 dicembre 2025 16:10

di MARIA CLAUDIA CONIDI RIDOLA*

Negli ultimi anni stiamo assistendo alla nascita di fenomeni che uniscono sessualità, social network e denaro in forme sempre più disinvolte. Tra questi, iniziative itineranti in cui giovani donne realizzano atti sessuali all’interno di furgoni attrezzati, filmano tutto e ne diffondono spezzoni online, presentandoli come intrattenimento, provocazione o semplice libertà personale. Il tutto condito da file di giovani pronti a partecipare, alimentando un’eco virale che sembra trasformare la pornografia amatoriale in un tour commerciale.

Da avvocato, non posso ignorare i profili giuridici che emergono. In Italia la prostituzione autonoma tra adulti consenzienti non è reato, ma la Legge Merlin vieta con decisione ogni forma di sfruttamento o favoreggiamento della prostituzione altrui. La giurisprudenza è chiara quando afferma che persino l’organizzazione logistica — mettere a disposizione un luogo, un mezzo o una struttura destinati al compimento abituale di atti sessuali — può configurare favoreggiamento. La Cassazione lo ha ribadito più volte, sottolineando che conta la funzione concreta che il mezzo assume, non il nome che gli si dà.

Sul piano della produzione e diffusione di materiale pornografico tra adulti consenzienti la legge non pone divieti generali. Tuttavia, il confine diventa delicato quando tali contenuti diventano strumento per pubblicizzare o accompagnare attività sessuali organizzate. Ed è proprio qui che entra in gioco una pronuncia rilevante: la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 14927 del 22 febbraio 2023 (Sez. V), ha stabilito un principio fondamentale e incontestabile: il consenso prestato alla registrazione di un video sessualmente esplicito non implica automaticamente il consenso alla sua diffusione.

Ogni diffusione, condivisione o pubblicazione deve essere oggetto di un nuovo consenso specifico, libero e informato. La Corte ha inoltre precisato che la diffusione è illecita anche se avviene verso un numero ristretto di persone e anche se il materiale era stato originariamente consegnato dalla persona offesa. Questo principio è decisivo perché ribadisce che la gestione dell’immagine corporea e dell’intimità è un diritto personalissimo, non cedibile in maniera generica.

Alla luce di ciò, iniziative in cui contenuti sessuali vengono registrati in un contesto semi-pubblico e poi diffusi per attirare attenzione, follower o denaro, presentano profili di rischio giuridico evidenti. Non basta dire “c’è il consenso”: serve verificare quale consenso, quando, per cosa e in quali modalità.
Oltre alla legge, però, ciò che mi preoccupa profondamente è il piano culturale. Viviamo in un momento storico in cui la violenza contro le donne è al centro del dibattito pubblico. Assistiamo a un incremento di femminicidi, di aggressioni, di rapporti malati fondati sul possesso.

Da un lato, lo Stato interviene creando norme più severe; dall’altro, la società sembra normalizzare la mercificazione del corpo femminile, presentandola come gioco, leggerezza, performance. Questi fenomeni non sono neutri: “allenano” gli occhi dei giovani — spesso giovanissimi — a percepire il corpo delle donne come qualcosa di disponibile, di monetizzabile, di esibibile.

La ricerca psicologica e criminologica lo conferma: la rappresentazione ricorrente della donna come oggetto di desiderio a disposizione altrui favorisce l’insorgere di comportamenti che banalizzano il consenso, il rispetto, i limiti della persona. Non sto affermando che chi guarda questi contenuti diventerà violento; sto dicendo che si crea un terreno culturale fertile in cui la percezione della donna viene deformata. Quando il corpo femminile è trattato come merce, quando diventa un contenuto da consumare rapidamente, quando le giovani sono incoraggiate a lasciarsi filmare e usare per visibilità, si manda ai ragazzi il messaggio che quella stessa disponibilità sia generalizzabile nella vita reale.

È qui che nasce il parallelismo con la violenza sulle donne: mentre combattiamo contro i femminicidi, permettiamo la proliferazione di pratiche che normalizzano l’idea della donna come corpo a disposizione. È una contraddizione evidente. La cultura della violenza non nasce dal nulla: nasce dal modo in cui la donna è rappresentata, trattata, percepita. E se la rappresentazione è costantemente leggera, ludica, mercificata, anche l’idea di rispetto si assottiglia.

In conclusione, la libertà personale non può essere fraintesa come assenza di limiti o responsabilità. La dignità, il rispetto della persona, la tutela dei minori e la prevenzione della violenza richiedono attenzione, consapevolezza e una riflessione profonda. La giurisprudenza ci ricorda che il corpo non è un contenuto. La società dovrebbe ricordarsi che non è un oggetto.

*Avvocato


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