Catanzaro, l’avvocato Conidi: “Quando una parola non deve diventare una condanna”

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  28 novembre 2025 17:23

di MARIA CLAUDIA CONIDI RIDOLA*

E' un titolo che descrive con semplicità ed efficacia ciò che accade ogni giorno nelle nostre carceri, dove il confine tra l’espressione impulsiva di un momento e la responsabilità penale può diventare pericolosamente sottile. In un ambiente dove la tensione non è episodica ma strutturale, dove la convivenza forzata, la frustrazione, il sovraffollamento e le dinamiche interne alimentano continuamente stati di agitazione, può accadere che un detenuto, magari da anni impegnato in un percorso trattamentale serio, perda la calma per un istante e pronunci frasi che, fuori dalle mura, sarebbero percepite come sfoghi senza reale pericolosità. Dentro il carcere, invece, diventano facilmente materia di rapporti disciplinari e contestazioni penali per minaccia o resistenza a pubblico ufficiale.

La recente decisione della Corte Costituzionale del 27 Novembre(ieri) restituisce un equilibrio necessario proprio rispetto a questi episodi liminali, evitando che un gesto impulsivo, privo di reale offensività, possa cancellare anni di condotta positiva e compromettere benefici, permessi o misure alternative faticosamente maturati. Chi conosce la realtà penitenziaria sa quanto spesso tali episodi non nascano da un’intenzione aggressiva verso l’agente, ma da meccanismi emotivi alterati dall’ambiente o, talvolta, da dinamiche tra detenuti che possono sfociare in provocazioni orditate proprio per danneggiare qualcuno, in un sistema in cui anche il minimo elemento può essere usato strategicamente per creare tensione.

La Corte, aprendo alla possibilità di applicare l’art. 131-bis anche ai reati contro pubblico ufficiale in ambito carcerario, ha riconosciuto la necessità di valutare in modo aderente alla realtà la concreta offensività di tali comportamenti, distinguendo tra l’aggressione autentica e il momento di collera, tra la minaccia effettiva e la parola che esplode in un contesto già saturo di pressioni. Non si tratta di sminuire il ruolo fondamentale della polizia penitenziaria né di deresponsabilizzare i detenuti, ma di impedire che episodi minimi assumano proporzioni punitive eccessive, sproporzionate rispetto al fatto e distruttive rispetto alla finalità rieducativa della pena.

La decisione non indebolisce l’autorità dello Stato, anzi la rafforza, perché la riporta all’interno dei binari della razionalità, della proporzione e della giustizia sostanziale. In un ambiente dove il margine di errore è ridotto e ogni reazione può sembrare più grave di quanto sia realmente, il riconoscimento della particolare tenuità del fatto rappresenta un presidio di equilibrio, un modo per ricordare che la pena non deve essere cieca e che la funzione rieducativa non può essere sacrificata sull’altare dell’automatismo. In questo senso, la sentenza è molto più di un intervento tecnico: è un segnale culturale forte, un invito a leggere i comportamenti alla luce del loro contesto, a non trasformare uno scatto emotivo in un marchio indelebile, e soprattutto a non permettere che una sola parola, detta nel momento sbagliato, diventi il motivo per spezzare un percorso di riscatto.

*Avvocato


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