Catanzaro, lo storia di Chiara: quando il corso pre-parto diventa un privilegio per pochi

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Chiara Savazzi
  24 febbraio 2023 17:44

Attraverso la sua lettera, vi raccontiamo la storia di una cittadina catanzarese, Chiara Savazzi, avvocato e presto mamma, che vuole far luce sulla tematica del sostegno alle future o alle neo mamme, in particolare per quanto riguarda l'assistenza dei consultori e dei corsi pre-parto a Catanzaro, partendo da un'esperienza che l'ha toccata personalmente e che pare riguardi moltissime donne e ragazze.

"Uno dei miei poeti del cuore, Franco Arminio, in una sua poesia recita: “un paese ci vuole […]. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c’è qualcosa di tuo”. Ed è così che, riflettendo sull’importanza della propria terra d’origine, sugli affetti che avevo lasciato in Calabria per ben otto anni, incontrandoli ogni qualvolta fosse possibile ma per un tempo che non risultava mai abbastanza, è proprio così, e per ricongiungermi al mio mare e al mio sole, che ho deciso di tornare a Catanzaro, dove vivo e lavoro stabilmente da poco più di un anno.

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Senza voler tediare con residui di nostalgia, devo però dire che continuo ad amare smisuratamente Bologna, dove ho vissuto, studiato, amato, lavorato; e dove certamente tutto era al suo posto: i trasporti, i servizi di ogni tipo, i luoghi e le occasioni di aggregazione e di crescita, e persino gli avvisi che arrivavano direttamente nella cassetta della posta, per ricordare di effettuare i controlli periodici a tutela della salute, peraltro gratuiti.

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È proprio su quest’ultimo aspetto che vorrei soffermarmi. Perché da quando sono rientrata, invece, le mancanze e le carenze si fanno sentire ogni giorno, per i più disparati motivi, dalle strade sporche all’assenza totale di addetti alla pulizia dei quartieri, dai collegamenti dalla stazione ferroviaria al centro storico che semplicemente non esistono (a meno che non si facciano tre cambi di autobus) ai tantissimi animali che ogni giorno incontro per strada, morti o vaganti, come se fosse così difficile creare un canile/rifugio adeguato e incentivare l’adozione (cosa che non avviene e lo conferma la mancanza addirittura di un sito ufficiale del canile, nonostante ci siano dei soggetti preposti e retribuiti proprio – ed anche – per adempiere a questo servizio).

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La frustrazione è tanta e la rabbia è aumentata soprattutto negli ultimi mesi, da quando ho scoperto con immensa felicità di aspettare una bambina. Nelle righe che seguono, racconterò solo un piccolo aspetto delle criticità in cui mi sono imbattuta.

Dopo i primi faticosi mesi, in cui – si sa – è tutto basato sulla massima incertezza, perché non è detto che la gravidanza procederà per il meglio, e, superato qualche problema iniziale, ho contattato la sede del Consultorio del mio quartiere, per iscrivermi ad un corso pre-parto. Ero in netto anticipo, considerato che né sul sito online né con altri strumenti, era stato pubblicato un avviso di avvio del corso. Anzi, l’avviso risaliva al 2020 e nello stesso veniva riportata la sospensione dei corsi, a causa della pandemia. La risposta, al telefono, è stata di un gelo assoluto: “non ci sono più posti!”. Ho chiesto alla mia interlocutrice come fosse possibile, considerato che ero entrata nel quinto mese e come avessero riempito i posti senza darne pubblicità. Per tutta risposta, mi è stato detto che i posti erano di quattro persone e che il loro metodo è quello del “passa-parola”. Ho subito chiamato la sede principale del Consultorio, in cui sono stata, fortunatamente, iscritta, con la precisazione che sarei stata ricontattata a fine gennaio per il colloquio e per iniziare dalla trentesima settimana.

Siamo ormai a fine febbraio, nella trentatreesima settimana di gravidanza, e nessuno mi ha contattata, nessuno ha risposto alle mie telefonate né alle mail. Così pochi giorni fa mi sono recata personalmente presso la sede principale, dove mi è stato detto che la psicologa è in pensione, un’ostetrica è in pensione mentre l’altra è ammalata, il neonatologo non esiste più già da molto tempo, e che, per questo motivo, ancora non hanno iniziato. Tutto questo mi è stato comunicato con un tono freddo, distaccato, tanto che non mi sembrava neppure di trovarmi in un consultorio familiare, ma nel reparto di un qualsiasi ospedale dove, considerato l’elevato numero di gente, ogni tanto ci si può aspettare che l’empatia lasci il posto alla fretta nei dialoghi.

Ho deciso così di fare un altro tentativo, recandomi presso la sede del mio quartiere, dove, solo dopo un po’ di insistenza, mi è stata aperta la porta, perché sono arrivata cinque minuti dopo l’orario di chiusura (nonostante ci fossero ancora pazienti all’interno della struttura) e mi è stato ribadito che i posti sono solo quattro, che sono già al completo, e che il loro metodo è quello del “passa-parola”.

È probabilmente scontato dire che l’amarezza è tanta, perché se nel luogo in cui l’amorevolezza e la cura dovrebbero estrinsecarsi nella loro massima potenza, questo è il trattamento, allora davvero vien da pensare che non ci sia speranza.

Sappiamo che il sistema sanitario calabrese fa acqua da tutte le parti; è commissariato e possiede ancora un piano di rientro dal debito sanitario; non rispetta gli adempimenti relativi ai L.E.A. (livelli essenziali di assistenza), essendo l’unica regione che si assesta al di sotto della soglia minima di adempienza, in tutte e tre le macro-aree (ospedale, distretto, prevenzione) stabilite a livello nazionale. Ma non è necessario ribadire quanto siamo sfortunati e quanti sacrifici si stiano facendo (ammesso che si stiano facendo) se poi utilizziamo le carenze come una scusa per non fare del nostro meglio, anche in realtà piccole, come quella di un consultorio familiare, stabilendo arbitrariamente che il numero massimo di donne da accogliere all’interno di un corso, debba essere quattro, lasciando fuori tutte le altre; non rispondendo alle telefonate; vantando il metodo del “passa-parola” quasi fosse un merito invece che una profonda ingiustizia; non attivando in tempo il corso pre-parto (nella sede centrale di un capoluogo di regione!) avvalendosi del personale che, seppur in numero inferiore agli standard, c’è e dovrebbe far funzionare il servizio.

Dicono a noi giovani di tornare. Ed io sono tornata, decidendo di lavorare qui, di impegnarmi ogni giorno, di accettare di dover prendere la macchina per ogni spostamento pur di vivere nella mia terra, e, addirittura, di metter su famiglia qui, a Catanzaro. Purtroppo, però, anche e soprattutto ora, a fine gravidanza, sono lasciata completamente da sola dalla mia città. Io, come tante altre ragazze e donne, anche meno fortunate di me.

Le soluzioni sono: avere delle amiche, sorelle, cugine, che abbiano già vissuto l’esperienza della maternità e che possano fornire consigli, spunti, spiegazioni; oppure pagare una serie di specialisti. Entrambe mi appaiono ingiuste e insensate, in un capoluogo di Regione che avrebbe tutte le risorse, le potenzialità e le menti per poter fornire un adeguato supporto alle future mamme e alle neo mamme, nel post-partum.

Volutamente non ho inserito i nomi delle persone con cui mi sono rapportata, perché l’intenzione non è quella di colpire il singolo soggetto, bensì di porre l’attenzione su una delle tante problematiche presenti sul territorio e di destare anche la minima riflessione sul fatto che, spesso, il cambiamento dipende dal modo di comportarsi di ciascuno, soprattutto nell’ambito del proprio lavoro; ad iniziare dai toni e dall’empatia, a finire con le azioni e la fruizione di un servizio.

Non è certamente la prima occasione in cui nessuno risponde al telefono in orario di lavoro, oppure in cui mi viene fornita una risposta non esaustiva, o ancora in cui mi viene detto, in ospedale, che il ghiaccio me lo sarei dovuta portare da casa, mentre il ginocchio, a seguito di una caduta durante il quarto mese di gravidanza, mi si gonfiava. Non è la prima e non sarà l’ultima. Ma questo non significa che sia giusto normalizzare esperienze del genere".

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