Catanzaro, sotto protezione non versa alimenti a moglie e figlia che non lo seguono: assolto

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L'avvocato Maria Claudia Conidi

Profonda lettera aperta dell'avvocato Maria Claudia Conidi, che ha affiancato l'uomo nella sua battaglia legale

  27 maggio 2024 19:35

di STEFANIA PAPALEO

Se un collaboratore di giustizia dimostra di essere indigente e di non poter versare l'assegno di mantenimento all'ex moglie con eventuali figli minori a carico, non può essere condannato. Questa la clamorosa decisione assunta dal giudice della Prima sezione penale del Tribunale di Catanzaro, Pasquale Alfredo Aloisi, nel processo intentato a carico di un quarantaduenne di Soveria Mannelli accusato di violazione degli obblighi di assistenza familiare. Assolto perchè il fatto non sussiste, ha scritto il giudice nella sua sentenza ben dettagliata nella quale conclude per l'impossibilità persistente e oggettiva della situazione di difficoltà economica dell'imputato, in quanto assoluta e non ascrivibile a sua colpa, così come dimostrato a gran voce dall'avvocato MarIa Claudia Conidi che ha affiancato il collaboratore di giustizia nella sua battaglia legale.

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LA STORIA DEL COLLABORATORE DI GIUSTIZIA E DELLA FAMIGLIA CHE NON LO HA SEGUITO
Collaboratore di giustizia dal 23 maggio 2012, l'umo a soli 30 anni ha deciso di dire basta alla sua vita di 'ndranghetista e ricominciare da un segreto angolo di mondo nel quale rifugiarsi insieme alla sua famiglia con una nuova identità. Ma davanti a quel futuro migliore sognato per la moglie e la figlia, queste ultime hanno detto no e così l'uomo è rimasto solo a combattere con gli spettri del passato. Il 10 febbraio 2016 la doccia fredda con una sentenza del Tribunale di Lamezia Terme che lo condannava a versare un assegno mensile di 400 euro a titolo di mantenimento dell'ex moglie e della figlia minore, di cui si sarebbe sobbarcato lo Stato se solo le due avessero seguito l'uomo nella nuova vita sotto protezione. Da lì la battaglia a colpi di carta bollata combattuta dal collaboratore di giustizia insieme all'avvocato Conidi, dimostrando udienza dopo udienza lo stato di indigenza dell'uomo al quale il programma di protezione garantisce comunque un alloggio dignitoso, con eventuali spese sanitarie e legali, con tanto di mantenimento previsto per la sua famiglia qualora moglie e figlia lo avessero seguito nella sua nuova vita. Ma così non è stato, lasciando l'uomo da solo e senza capire che "oggi collaborare significhi mettersi in riga, stando sotto il mirino della legge, per come è giusto che sia, non solo per la gente protetta ma per tutti", osserva l'avvocato Conidi, in una lettera intrisa di riflessioni profonde di cui pubblichiamo il testo di seguito.

LA LETTERA DELL'AVVOCATO MARIA CLAUDIA CONIDI
Se il buon giudicare è fare sentenza con adeguato senso civico, senso etico, perché no coraggio e senso di indipendenza vera, oltre che senso umanitario, quella emessa dal GUP presso il Tribunale penale di Catanzaro nel mese di Aprile scorso, in materia di omesso mantenimento alla ex moglie e alla prole ,è di certo un esempio di buon giudicare.

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E’ davvero epocale e ritengo segni una svolta in quelle che sono le preclusioni mentali nei confronti dei soggetti sottoposti a programma di protezione , la pronuncia di cui mi accingo a scrivere, poiché prende atto di un “sistema” del tutto ignorato in precedenza e avulso da ogni considerazione logica e di conseguenza giuridica che abbia sinora costellato il campo delle sentenze in materia. E mi spiego.

Quando un collaboratore di giustizia decide di andare in protezione, sottraendosi così a un tristissimo destino fatto di prigione e condanne seriali, nonché di abbandono reale della sua famiglia tutta, costretta a passare il resto della sua vita a colloqui in carcere col proprio congiunto o parente, senza se e senza ma, lo fa per dare ci certo un futuro a sé e anche ai propri familiari, figli in primis.

Ma se in primis i familiari (ex mogli) e i loro figli di conseguenza non seguono il neo collaboratore nella sua nuova scelta di vita, optando anche loro per seguirlo nella località protetta, nella quale assumeranno una nuova identità, un nuovo stile di vita, firmando così anche loro il contratto con lo Stato per andare in protezione, il collaboratore dovrà semplicemente prenderne atto, non potendo fare alcunché, se non ricorrere- per rivendicare i propri diritti di genitore verso i figli- al Tribunale dei Minori competente per poter richiedere la prole o in affido esclusivo – qualora dovesse ritenere che gli stessi corrano il rischio di morire a causa del padre, o condiviso, qualora dovesse consentirlo il Tribunale adito, su input della difesa e della DDA competente ,di concerto, secondo protocolli, con l’Ufficio del Procuratore Generale competente per territorio. Dovrà faticare a vedere i suoi figli in caso contrario, perché potrà vederli il “terza località “, ovvero in località “neutra” né d’origine, né “protetta” , tramite il Servizio di Protezione, con tutte le cautele possibili ,ma soprattutto con il rischio di dare al proprio figlio il ricordo di un padre fantasma in un clima da “caserma” fatto di giubbotti antiproiettile e luci blu[1]In più dovrà continuare a corrispondergli quanto la legge gli aveva imposto prima di andare in protezione, perché nessun magistrato scrive i suoi provvedimenti avvalendosi di una sfera di cristallo ,che veda cioè oltre il momento in cui stila sentenza. Il tutto sotto ricatto morale della ex che ,se il suo ex marito non adempie agli obblighi di assistenza, ex perché chi non segue il marito in protezione ovviamente se ne separa anche giudizialmente, farà mille problemi e querele per poterlo punire , con armi di certo impari, poiché avrà dalla sua parte un provvedimento , una vita ormai spezzata di comunanza genitoriale ,nonché nuovi interessi avulsi da quelli del padre e del figlio minore di turno.

Questo fino ad ora. Alla luce della sentenza richiamata, però, bisognerà non solo prendere atto delle scelte operate dal collaboratore ,scelte di solito “obbligate” per poter sopravvivere nella morsa della malavita, ma anche di quelle assunte dalla sua compagna, che, deliberatamente non abbia aderito al programma di protezione , optando per una vita fuori dal circuito tutorio per rimanere dalla parte di chi non teme nulla, o perché non ne ha motivo (e questo è davvero strano per chi abbia affiancato per una vita un delinquente) o perché è “protetto” da ben altra rete che le consente di stare agiatamente a dormire su sette cuscini, pur senza alcun programma di protezione. Infatti nella pronuncia che mi pregio di aver compulsato sulla scia di quanto allegato, il giudice dovrà tener conto al fine di valutare la sussistenza nel caso specifico del dolo dell’autore del reato, cioè constatare la consapevolezza in capo al presunto autore del reato dello stato di bisogno in capo all’avente diritto, oltre che , dover valutare l’incapacità economica dell’obbligato, ovvero la persistente difficoltà a far fronte agli obblighi di natura economica legata al dato oggettivo del proprio reddito annuo. Ogni collaboratore, infatti, vive di un assegno mensile di natura alimentare -

Due sono i concetti quindi che chiudono il cerchio sull’ insussistenza del reato di mancato versamento degli obblighi di assistenza familiare in sé: il primo secondo il quale nessuno è tenuto ad far fronte ad obblighi impossibili, racchiuso nel brocardo latino “ad impossibilia nemo tenetur”, poiché il collaboratore di giustizia vivendo con un assegno mensile di natura alimentare per sé e per ogni familiare al seguito, non può andare oltre quella cifra disponendone sia pur per motivi seri e nobili come quelli connessi al mantenimento dei propri figli, se non ponendo in essere condotte di certo antigiuridiche e contrarie allo spirito della collaborazione con la giustizia, l’altro secondo il quale il dolo per mancato versamento degli alimenti viene meno se manchi lo stato di bisogno in capo alla persona offesa, sprovvista ad esempio di reddito – Infatti la persona che rifiuta la protezione decide di lasciare il compagno sol perché diventa collaboratore di giustizia, rifiutando di conseguenza quanto le spetterebbe di diritto , quale persona sottoposta a misure tutorie e lo fa deliberatamente, optando così per una scelta di vita e facendolo anche verso un minore di cui si appropria totalmente, compreso ciò di cui volontariamente e consapevolmente va di conseguenza a sottrargli , ovvero di quelle risorse che lo Stato aveva già previsto per lui quale figlio di persona protetta.- Ergo non può pretendere che l’ex gli corrisponda quanto lo stesso doveva versare prima di operare la scelta di andare in protezione, poiché poi tutto è cambiato e mentre prima dunque poteva elargire un tot, anche in forza del passato di delinquenza che imperava nella sua vita “sociale”, dal momento in cui lo Stato lo pone sotto la sua egida, non potrà che godere di quello che gli consente di sopravvivere r di conseguenza non potrà più far fronte ai suoi obblighi per motivi che esulano dalla sua sfera intenzionale.

Auspico a questo punto una presa d’atto per chi dovrebbe colmare le ragioni dei minori chiusi in una morsa tra lo Stato e la delinquenza, a che si adotti una normativa che preveda il giusto spazio e la giusta dimensione a loro esclusiva tutela qualora, contesi tra chi resta e chi parte in protezione, non subiscano nulla che possa pregiudicare la loro sfera d’interessi protetti, in primis quella del loro benessere psico fisico, di certo altamente vulnerabile e di fatto vulnerata da normative che fin troppo spesso operano su aree compromesse da limiti di natura economica.

Per il resto mi ritengo alquanto soddisfatta perché il diritto si evolve e nessuna parola resta ferma, ma si innalza verso concetti più alti, scevri da preclusioni cognitive e sganciata da preconcetti a volte condizionati da un cattivo orientamento di pensiero verso la popolazione protetta, considerata come “ gente privilegiata”, quando ormai è evidente come oggi collaborare significhi mettersi in riga, stando sotto il mirino della legge, per come è giusto che sia, non solo per la gente protetta ma per tutti.

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