Cimino: "Ama Calabria che ama il Teatro Comunale, i due Francesco dell’arte"

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Franco Cimino
  09 maggio 2024 16:17

 

di FRANCO CIMINO

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Una chiusura col botto. L’aveva promesso Franco Pollice, direttore e promotore di Ama Calabria, magistralmente sostenuto in questa articolata produzione dal competente fratello e da Daniela Faccio, presidente di “ Amici della Musica, partner organico dell’intera sua nuovo veste. L’aveva promesso e l’ha realizzato. Ieri sera al teatro Comunale, il teatro al Centro del Centro Storico, é andata in scena una delle opere teatrali tra le più belle che la mia memoria ricordi essersi svolte in Catanzaro, dal purtroppo sempre più triste Politeama a quello spazio d’arte straordinaria che é diventato il Comunale del compianto Franco Proto. Lui , indimenticabile ancora giovane uomo, che non finirò mai di ringraziare per aver affidato il Teatro a quei quattro pazzi capitanati dal più pazzo di tutti, che l’hanno salvato dalla chiusura e riportato a vita nuova. E splendente, visto le luci sempre accese sulla via principale e le persone, che in numero crescente, da lì dentro vanno e vengono, soddisfatte di quel piccolo gioiello nel cuore della Città. Cuore esso stesso della Città.

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L’ho detto su quel palco, dove sono stato invitato a ricevere, in occasione del settimo anniversario del nuovo percorso del Comunale, un riconoscimento per me significativo, che in una Città così importante e ancora bella come Catanzaro, la chiusura della saracinesca di un negozio spegne una luce, sulla via e sulla Città, la riapertura delle porte di un teatro illuminano tutta la via, tutta la Città. Il mondo intero. E la vita anche di chi solo vi passa davanti.

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Viva dunque il Comunale, che ha dato ospitalità ad Ama Calabria quell’anno del pre Covid in cui non poté rappresentarsi al Grandinetti di Lamezia in quanto chiuso per lavori di ristrutturazione. Ecco, quando da una difficoltà nasce la buona opportunità. Difficoltà e opportunità, che i due Francesco, Pollice e Passafaro, il musicista- direttore e l’attore-regista, hanno saputo trasformare in un duplice atto di straordinario valore. Due fatti che la politica nostrana e quel che ancora definiamo mondo culturale, non hanno mai saputo fare. Il primo, è l’alleanza, appunto politica e, quindi, territoriale, tra Lamezia Terme e Catanzaro, le due città che, invece di abbracciarsi, si guardano tuttora in cagnesco.

Il secondo, il ponte culturale che realizza non solo valide collaborazioni artistiche per la produzione di opere importanti, ma vere e proprie integrazioni, in cui le peculiarità artistiche di un luogo si uniscono a quelle dell’altro. Contaminandosi e conservandosi uguali. C’è un aspetto, poi, che mi piace sottolineare di questi due Francesco, che, io credo, discenda proprio dalla loro sensibilità di artisti, tanto da muovere il mio sospetto in coloro i quali, scarse anche di quella culturale, non lo manifestano. È un aspetto che fa bene anche all’immagine propria e del teatro. Un qualcosa di elegante che sta tra l’educazione e il rispetto. Del luogo e degli spettatori. Come i “ padroni” di casa, quando alla porta ricevono e riaccompagnano i loro ospiti. I due Francesco, Pollice e Passafaro, a ogni spettacolo li trovi all’ingresso del Teatro a salutare i convenuti, all’inizio e alla fine delle rappresentazioni. Li vedi sempre eleganti, ciascuno secondo il proprio stile. Sempre in giacca e cravatta. Ieri il maestro Pollice non c’era, per lui hanno fatto i doveri di casa, appunto, il fratello e la professoressa Faccio, con l’immancabile Francesco, il nostro “ mattattore”.

Per concludere, un mio breve accenno allo spettacolo di ieri sera. Breve perché non ho le competenze per dirne criticamente. Breve perché riuscirebbe a chiunque difficile presentarlo se non attraverso le emozioni prodotte. Breve, perché va visto. E chi se l’è perso fa ancora in tempo a recuperarlo in quel di Lamezia, dove andrà in scena questa sera. Al bel teatro Grandinetti. Due grandissimi attori, Sergio Rubini e Daniele Russo, hanno portato in scena “ Il caso Jekill” per la regia dello stesso Rubini. Sono stati formidabili. Una recitazione poche volte vista, con quel ritmo incalzante e i rapidi cambiamenti di posizione e ruolo. E quei dialoghi su testi di grande effetto, anche letterario.

Dire che Russo, nel suo doppio, dott Jekill e mister Hide, sia stato fenomenale è riduttivo. Ma anche fuorviante. Ci distrarrebbe dal dire che tutti gli altri interpreti sono stati di pari valore. Li elenco qui nome per nome: Geno Diana, Roberto Salemi,Angelo Zampieri, Alessia Santalucia. Bravissimo Rubini nei panni del raccontatore in scena e dello scienziato medico. E bravissimo alla regia. Soprattutto, per quella capacità, che solo i veri artisti, poiché in essi vi è la generosità, sanno esprimere. Quella, cioè, di rendere ciascun attore protagonista principale, non figura secondaria, dell’opera. Per questo sono apparsi, a tutto il pubblico che li ha applauditi lungamente in piedi, eccezionali quei protagonisti. Il dottor Jekill è arrivato alla ribalta, con tutto il carico di ambiguità e di malefica doppiezza, con la prima pubblicazione dello scrittore Robert Louis Stevenson nel gennaio del 1886.

Il titolo del libro porta proprio la stessa intitolazione dell’adattamento teatrale: “ Lo strano caso del DR Jekill e MR Hyde.” Molti anni prima di Sigmund Freud, ma certamente non essendo l’unico per l’antico tema delle tragedie greche, Stefenson presenta dell’uomo, e nell’uomo, le due nature. Quella manifesta e l’altra nascosta. Esse si mostrano apparentemente uguali ed opposte allo stesso tempo. Nella loro opposizione, la prima si rappresenta buona e razionale. La seconda, cattiva e istintuale. La buona è sottoposta al duplice rigoroso controllo della ragione e della morale. La seconda, si scatena nella natura animale dell’individuo. Che, si badi, non é solo incontrollabile, ma è ciò che è. Del tutto libera dalle convenzione e non rispondente ad alcune morale. Se di una morale proprio si dovesse tener conto, questa é la natura in sé.

Stevenson ci dice che l’uomo é un doppio Io. In questa doppiezza sta un continuo andare e tornare che si racchiude ermeticamente nella dimensione specifica dell’uno e dell’altro. Un doppio Io che non possiamo negare o saltare con disinvoltura. Immergerci nell’altro é una necessità per capire meglio chi siamo. E scoprire che non sempre quella doppiezza si sottrae alla nostra ambiguità, per la quale talvolta ci riesce difficile comprendere chi dei due sia la malvagio. É questa la domanda che resta ferma sul palcoscenico. Gli spettatori potranno far finta di non vederla, ma essa sí stampa nella spazio delle mani che ieri freneticamente hanno battuto di soddisfazione. La dualità, che si fa duplicità, il doppio che diventa ambiguità. La certezza che scivola nell’incertezza. La fragile sicurezza nella resistente fragilità. È da qui la domanda non su come poter separare il bene dal male. Ma quella, più inquietante, su cosa sia il bene e cosa sia il male.

Infine, ma ci sarebbe ancora tanto da dire, l’inquietudine più dura. Specialmente, oggi, dinanzi alle minacce che giungono dalle imponenti innovazioni tecnologiche. E dal mondo della scienza. Può la scienza e la tecnica essere lasciata libera di creare senza confini etici che la orientino? E si può, in nome della libertà di esse e della ricerca, accettare e impiegare tutto ciò che scienza e tecnica inventano? Si può consentire che esse creino nuova vita e nuova intelligenza, pur se dall’interno della stessa vita e della stessa intelligenza, che, modificando la natura umana, si impadroniscano dell’uomo e della sua vera libertà? Ecco, grazie alla bellezza dei due Francesco e alla grandezza di Sergio Rubini, il quesito che si muove nell’aria che respiriamo.

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