Cimino dice addio a Napolitano: “È’ morto un re, un gigante della politica”

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Franco Cimino
  24 settembre 2023 16:12

 

di FRANCO CIMINO

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Giorgio Napolitano, dall’ospedale dove ha esalato l’ultimo respiro, torna oggi nel Palazzo, che insieme a quello vicino di un centinaio di metri, è stata una delle sue case più vissute. Le altre due sono, quella familiare, di certo la meno frequentata, e Botteghe Oscure, in rappresentanza di tutti i luoghi della sua militanza partitica, tutta trascorsa nel PCI, il suo unico partito, di cui ha visto la crescita, il declino, la fine. Ottantanove anni sono un bel cammino sulle ali dell’esistenza. Un tempo davvero invidiabile. Specialmente, se vissuto pienamente con tutto il carico di passioni, di fede negli ideali professati, di battaglie per sostenerne i principi, di coraggio nel non rinunciarvi mai. Giorgio Napolitano, il comunista “ prudente”, ovvero il moderato della sinistra, l’uomo del dialogo e della mediazione( una sorta di Aldo Moro con la falce e il martello). Giorgio il re, l’aristocratico, l’uomo elegante con il cappello in testa, Borsalino rigorosamente grigio scuro, pronto a essere levato e portato sulla mano destra, per ossequiare le signore o per salutare la gente che lo acclamava. Il dottor Napolitano, nel cui cognome, nonostante quella diabolica i in mezzo, recava, più che la vivacità, lo stampo culturale della sua Napoli. Quella antica, dello stampo che lo faceva fermamente un uomo di cultura. E della cultura proprio napoletana, ferma all’incrocio di diversi pensieri e filosofie, che hanno fatto di lui un pensatore attento e originale. Moderno. Quel pensatore che ha contribuito a formare in lui un politico non conformista e non “conformabile”. Neppure alla rigorosa disciplina di partito, per quanto egli l’abbia sempre osservata. Anche quando il PCI visse, e più volte, autentici scontri di posizioni, che sono quasi sempre culminati in dolorose scissioni. Napolitano Giorgio, quindi, il politico disciplinato ma dal pensiero autonomo. E generoso, tanto da offrirlo, con una umiltà “ incoerente” rispetto alla sua “altezza”, considerevole e unanimemente considerata, ai leader del partito che egli stesso ha contribuito ad elevare in quel ruolo. Giorgio Napoletano, l’uomo del dialogo e della diplomazia segreta. In particolare, quella esercitata, e con successo, durante la fase, la terza nel pensiero di Aldo Moro, dell’irrealizzato incontro organico tra la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista. Grandi e molteplici qualità, quelle del “principe comunista”, ovvero del gran signore della Politica. Tutte quelle che, aggiunta a una sana “ ambizione personale, non gli consentirono ciò che anni dopo fecero la sua fortuna. Non gli consentirono di diventare segretario del partito. E non solo per la forza di due grandi personalità quali Alessandro Natta, prima, e Enrico Berlinguer, dopo, che lo diventarono. Gli consentirono, però, di essere eletto presidente della Repubblica. E per due mandati, pur se il secondo mantenuto, per sua volontà, poco più di un anno. Potrei, su questa scia, continuare a lungo a dire di lui. In particolare, del tempo, assai più intenso e faticoso, esaltante quanto rischioso, che ha preceduto questo breve racconto. Ma era solo per dire degli ottant’anni sulla vita di una persona. E della felicità di viverli, nella disinvoltura di portarli. Nella concretezza di agitarli sulla realtà. Nel senso profondo che il protagonista ha dato ad essi. Ma ottantotto anni, sono quasi un secolo. E il secolo si misura non sul cammino di una persona, ma sulla storia di cui essa ha fatto parte. A volte nutrendola. A volte nutrendosi di essa. E il secolo di Giorgio Napolitano è un secolo straordinario. Suddiviso tra il ventesimo e il ventunesimo, con i due terzi trascorsi sul novecento, quello che, considerato breve, ha più fortemente segnato il futuro dell’Italia e la nascita dell’Europa, al cui cammino egli ha donato, europeista convinto, il massimo di sé. Secolo straordinario, il novecento. Due guerre mondiali, una, la seconda, vissuta direttamente dal giovane Giorgio, l’altra studiata fin dentro le sue più nascoste motivazioni, dalle quali ha tratto quello spirito intenso, fortemente ispirato alla necessità della Pace. Impegno che non ha mai disatteso. Anche da dirigente del PCI, al quale ha aperto le vie per un dialogo più marcato con Israele. In particolare, nella fase in cui più forte, in tutto il Paese, si faceva l’attenzione verso i palestinesi di Arafat. Via sulla quale, intrecciato da profonda intesa fu il rapporto tra Moro e Andreotti, i due giganti che si alternarono nei ruoli di presidente del Consiglio e di ministro degli Esteri. Fu anche per questo che a Napolitano fu assegnato l’altro titolo, diciamo, di ministro degli Esteri ombra. Due ricostruzioni post belliche, la seconda, diversa dalla prima, sostenuta personalmente. Era quella la continuità della Resistenza, che iniziò a prendere corpo da due fatti straordinari pieni di quella grandezza. Grandezza, che ha rappresentato la spinta irrefrenabile al Progresso e alla crescita anche economica del nostro Paese. Due fatti che hanno costruito nell’Italia una delle realtà più importanti e rispettate nel mondo. Il primo, la scelta della Repubblica come forma di Stato più adeguata alla realizzazione della Democrazia. Il secondo, quasi contestuale, di certo conseguente, il varo della Carta Costituzionale, la più grande operazione umana e politica che si potesse concepire. La più grande, perché definitiva, vittoria sul fascismo e sulle sue nostalgie. Vittoria sull’idea di potenza muscolare, sulla figura del superuomo, sulla barbarie della violenza, sul potere violento, sull’assolutismo e sulla sua pratica “ assassina”, la dittatura. La vittoria decisiva sulla “ morte” della dignità della persona e della libertà, che ne è sostanza genetica. Il giovane Giorgio, dei due fatti ne segue ogni passaggio e si accompagna idealmente in queste grandezze. E se ne innamora. Si appassiona alla Costituzione, si lega da autentica ammirazione ai padri costituenti. A tutti i costruttori di quel tempio della Libertà. Pur tra inevitabili contraddizioni, di natura fondamentalmente ideologica, quel giovane, anche bello nell’aspetto ed elegante nel portamento, si forma anche su quei principi, facendoli camminare accanto alle teorie marxiane. Teorie che, nel suo lungo cammino politico, progressivamente, in alcuni punti, Giorgio seppe correggere, anche se gli mancò la forza e il coraggio, di spingerle ancora, e con maggiore determinazione, all’interno del suo partito, pur avendo, egli, negli anni più utili, direi necessari, alla discussione, quale maestro, la figura storica di Giorgio Amendola, autentico coraggioso rinnovatore di quella ideologia e della vita del partito di riferimento. Anche sulla sua passione per la Grande Carta, si potrebbe dire tanto di più. Mi soffermo, però, e brevemente, sui due punti che più lo catturarono, formandogli quel senso dello Stato e quella idea di Nazione che rappresentarono il suo vademecum negli otto anni al Quirinale. Anni che, nonostante errori, taluni non trascurabili, e le solite contraddizioni, proprie di un gestore del potere democratico, gli confezionarono il quasi unanime giudizio di Presidente buono e capace, rigidamente ancorato al ruolo ricoperto. Ruolo rivestito della sua forza costituzionale, che lui indossò con la stessa eleganza con cui portava i suoi abiti di raffinata sartoria. Quei due punti si chiamano istituzioni, rigorosamente al plurale, e solidarismo. Con i primi, il politico Giorgio trovava le solide impalcature per mettere al sicuro la Democrazia, di cui era un autentico appassionato. Con la seconda, assicurava invece sé stesso che quell’ideale di giustizia, nell’eguaglianza piena, non sarebbe mai stato reso inutile ed evanescente. Nel mezzo di questi due principi, egli metteva, come chiesa laica, tempio della vera Democrazia, il Parlamento, nella concezione, ancora più profonda, che esso rappresenti, oltre a quanto comunemente detto e largamente studiato, il luogo in cui Libertà e Persona si coniugano, senza confliggere, con interessi diversi e diffusi, affinché gli stessi, proprio per la forza della Democrazia, diventino interesse comune, il bene di tutti. In questo Bene c’era l’Europa, la tappa successiva alla fatica della Democrazia compiuta dagli italiani. L’Europa unita in cui gli Stati, pur cedendo porzioni di sovranità, cosiddetta, non perdevano nulla della propria identità. Al contrario, avrebbero concorso a realizzare, in un solo coro di popolo, quella entità unitaria sovranazionale impegnata ad edificare un mondo senza guerre e senza povertà. Un’Europa democratica, con istituzioni più decise nell’azione di governo, per una politica economica fondata sui principi di giustizia ed eguaglianza. Un’Europa della solidarietà e dell’accoglienza, nella quale il mare sia la via sicura del viaggio per la libertà. Giorgio Napolitano, il comunista, il costituzionalista, il politico, il presidente, l’uomo del Sud e della cultura partenopea, è pienante il suo secolo. Lo è stato per i sessantacinque anni vissuti nel novecento e per i ventiquattro trascorsi nel terzo millennio. In quest’ultimi vi è arrivato stanco, ma con lo sguardo sempre attento a cogliere della nuova modernità ciò che può essere più utile alla vita delle persone. E alla Democrazia. Sarebbe assai interessante conoscere il suo pensiero su questa frazione di tempo, che francamente inquieta i sinceri democratici e i cultori della Libertà. Ciò che più rattrista oggi è che con lui scompare un democratico sincero, un europeistica autentico, un italiano vero. Se ne va martedì, e per sempre, una figura rassicurante. E con lui(quelli che restano ancora son troppo pochi ormai), quella Bellezza della Politica, che, nonostante i limiti di quei pochi uomini che si sono corrotti, violandola, era rappresentata da grandi partiti, grandi uomini, militanza appassionata, e da ideali immarcescibili. Ideali altissimi, che pur nella loro diversità, tutti convergevano sul principio condiviso, la Democrazia in una repubblica fondata sul lavoro. Sulla persona. Al singolare, anche per lui, Giorgio il comunista.

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