Cimino: "Francesca Prestia e Carlo Muratori, 'U Santu Natala' e la chiesa di San Giovanni"

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images Cimino: "Francesca Prestia e Carlo Muratori, 'U Santu Natala' e la chiesa di San Giovanni"
Franco Cimino
  10 dicembre 2023 18:23

di FRANCO CIMINO

Lasciatemela dire tutta, che io non so trattenermi nel dire di ciò che vedo. E ciò che penso e sento. Specialmente del bello, fatti e azioni, persone e luoghi. L’altro ieri parecchia di questa bellezza l’ho vista. In chiesa, quella stupenda chiesa che, anch’essa, trova insieme antichità e architettura, arte e cultura, spirito religioso e sentimento. È la Chiesa di San Giovanni, il monumento maestoso che apre e guida il cammino del nostro bellissimo Corso, il flessuoso lungostrada che quasi tutti vorremmo restasse chiuso al traffico, fino al suo punto terminale della stupenda balconata della Bellavista sul mare. Catanzaro è bellissima, no? Sì che lo è, nonostante noi.

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Al San Giovanni, serata di chiusura della terza edizione di Cuore Cantastorie, rassegna di “ Cunti e Canti” delle diverse tradizioni popolari, la nostra in particolare, ideata e diretta da Francesca Prestia, donna che ha studiato e studia tanto e la cui fantasia applicata alla capacità organizzativa la stanno portando a fare buona compagnia ad altre due donne, le nostre magnifiche Chiara Giordano e Tonia Santacroce. Donne di grandi capacità su questo terreno, quello della promozione dell’arte e della cultura. Alle ventuno e trenta, quasi esatte, nell’incantevole scenario del luogo va in scena “ U Santu Natala” , un’opera scritta a più mani. Quelle dalla Prestia e di Carlo Muratori, cantastorie siciliano, studioso attento di quella cultura e ricercatore delle parole e delle melodie più nascoste nel tempo e dall’ignoranza. Io ci sono andato e non solo perché la Chiesa, della mia parrocchia tra l’altro, è proprio sotto casa, attraverso i dieci metri del Corso. Salgo i sedici gradini della sua scala, ed eccomi dentro una meraviglia, che affascina sempre e ispira di suo. Ci sono andato, come nelle altre due sere del Festival, perché sono un cultore appassiona di musiche e balli e canzoni popolari. E poesie e storie, giunte a noi dalla narrazione orale dei nostri vecchi. Uomini e donne semplici e poverissimi, che hanno posseduto, di strumentale, soltanto la voce e la parola. E quegli strumenti rudimentali realizzati dalle loro mani, dei quali ci ha nuovamente parlato e cantato, ieri sera, anche Andrea Bressi, figlio del grandissimo Silvestro, storico della cultura popolare e della musica popolare, che in tutte le parti del pianeta ci invidierebbero e qui, ancora trascurato, rischia di essere solo il padre di Andrea, nonostante anche i tanti scritti che ha, studiando moltissimo, consegnato al patrimonio letterario calabrese. Andrea, accompagnato da un altro “ sonatura”, che lo segue, insieme alla voce della moglie, (“ ho fatto un affare a sposarla”)in giro per la Calabria e il mondo, ha iniziato, occupandola con maestria per un bel po’, la serata speciale. Per tornare a me e alle mie passioni: ciò che è popolare e “vecchio”, mi attira. Mi riporta alla mia storia, che è nella vita dei padri e delle madri. A quella della mia Città. Alla mia terra, a cui tutto ritorna perché da lei tutto muove, come teatro di ciò che vive e nasce. E mai muore oltre noi. Sopra di noi. Nella cultura popolare e nelle sue arti, la canzone e il ballo soprattutto, si trova l’anima del popolo, il suo cammino indomito, tra gioia e dolore, fatica e tormento, disperazione e speranza, preghiera e bestemmia, favola e poesia, vino e sudore, acqua e lacrime, pane e miseria, solitudine e compagnia, campi d’arare e osteria, sole cocente e pioggia torrenziale, caldo soffocante e freddo gelido, ubbidienza e ribellione, schiena piegata due volte, scarpe consumate e piedi scalzi, ‘mbasciata e pettegolezzo, fidanzamento acconzatu e matrimonio. E sposalizio “affollato” di parenti intorno alla tavola lunga anticipata dai liquori fatti in casa e di colori accesi( giallo verde, rosso bruno, giallo). Il suo cammino, del popolo, verso il sogno non sognato e le vittorie che vedranno chi non le ha lottate. Religiosità tra fede e superstizione. Attesa ma non rassegnazione. Riti e tradizione. Feste in piazze e stornellate per la via.

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E serenate lontanissime dagli inesistenti balconi dell’amata, ché le case del popolo erano sempre basse e più “ bassi dei bassi napoletani”. E il Natale, che era più del Santo Natale. Era preghiera collettiva, l’Avvento di un tempo nuovo. Era messaggio di speranza e speranza diffusa. Era incontro. Nella famiglia. Tra compaesani. Incontro del perdono, donato e ricevuto. Promessa di fratellanza. Il Natale era anche musica. Bellissima. Resistente ad ogni modernità. Zampogne zampognari. Era poesia. La più intensa e immediata, portata dalla più bella lingua, quella dei padri. La lingua dimenticata, ma che ritorna forte se qualcuno ce la fa tornare. Potrei continuare senza fine, ma questo già basta. Per dire che questo Natale e questa cultura, questo popolo antico in movimento, questo uomo solo e questa donna sola e, poi, insieme come famiglia e come comunità che condivide e sostiene la vita del luogo e l’amore per la terra e il mare, il dovere della fatica e del coraggio, l’abbiamo incontrato al San Giovanni, nel concerto spettacolo donato dal duo artistico, tanto particolare quanto grande, Prestia-Muratori. La Calabrese e il Siciliano, nella costruzione, questa sì ben riuscita, del ponte più prezioso tra Calabria e Sicilia, due regioni e due popoli in una e in uno, pur se separati dal mare e da una montagna di storie particolari e di sensibilità diverse. La nostra Francesca, invero, ha già sperimentato questa formula. L’anno scorso. E con un altro grande artista siciliano, quel famoso Angelo Sicilia, studioso e continuatore dell’antica tradizione dei pupi siciliani, lui Puparo stesso
Con Sicilia hanno scritto e portato in giro per l’Italia due spettacoli contro la mafia. Uno ancora più incisivo e commovente, quello dedicato a Felicia, la coraggiosa mamma di Peppino Impastato. Quest’ultimo lavoro, tutto preparato è messo in scena, ieri sera, con Muratori, è davvero molto bello. In ognuno dei suoi molteplici aspetti. Ne tratto solo alcuni. Il tempo e il ritmo. Ambedue indovinati e ben accostati. Sessanta minuti senza interruzioni inutili e vuoti d’attesa assai fastidiosi. I due artisti davanti all’altare, distanti e vicinissimi tra loro. Seduti per tutto il tempo. Chitarra per Carlo e l’immancabile flauto e uno strumento, che sembra un piccolo organo( mi scuso dell’imprecisione) per Francesca, che ieri ha fatto riposare la sua chitarra battente. Due voci che si sono alternate tra canti e racconti, su musiche e parole bellissime. I testi, armoniosi nella loro melodie poetiche, sono coerenti con la narrazione religiosa e le scritture antiche. Il suono delle parole, come quello della musica, accompagnano un messaggio che va oltre quello proprio del Natale, costruire la Pace respingendo il male e il suo mezzo preferito, la violenza. Tutta la violenza, in particolare quella contro la donna e i portatori di ogni diversità, in essa compresa la fragilità. Nel loro racconto c’è il Natale di un tempo, che tanti di noi abbiamo felicemente vissuto, dove l’attesa della Notte Santa era la gioia e i doni erano la tavola ricca e le piccole cose che i bambini desideravano. Piccole davvero. Il Natale del Presepio, della Messa dell’Avvento, del Gesù Bambino adorato come figlio di Dio, per i credenti. E come un valore universale per l’Umanità che rinasce dalla sua bellezza dimenticata. Uno spettacolo che scorre lungo la sua stessa poesia, che, come per miracolo, nasce dal silenzio che avvolge lo spettatore( ieri eravamo in tanti), e dalla sintonia tra pubblico e artisti. Un unico respiro. Che si interrompe con il lungo applauso finale, che scuote l’emozione che ha preso tutti. L’augurio che mi sento di fare è che questo spettacolo, per il suo messaggio universale, vada oltre il periodo natalizio e faccia il giro dell’Italia, partendo dalle scuole e raggiungendo i teatri e le piazze diverse. Sono contento di esserci andato. Ho rivisto anche due artisti di assoluto valore. Francesca Prestia, sta continuando a studiare e a crescere notevolmente. Elabora testi importanti, ne elabora di nuovi e nuova musica crea per quella tendenza alla contaminazione positiva della tradizione popolare con la cultura musicale grecanica e siciliana. Operazione, questa, che possono consentirsi solo coloro che le diverse sensibilità artistiche conoscono profondamente. Anche sul piano prettamente storico culturale. Dopo la scomparsa dell’immenso Otello Profazio, il già valore artistico di questa artista è divenuto ancora più importante è prezioso. Come la sua voce, una delle più interessanti del vasto panorama canoro nazionale. Carlo Muratori mi era già noto. E da tempo dei miei studi e della mia passione anche per la cultura e la storia della musica popolare siciliana. È un grande artista. Ha studiato tutta una vita. Conosce la musica, tutta. Ed è un grande musicista lui stesso. Usa la chitarra come parte del suo corpo. Mani e chitarra fanno parte della sua anima. Quando le muove a quel ritmo, che solo con pochi altri possono agitare, tutto di lui arriva al pubblico. Muratori oltre ad essere una grande voce è anche un ricercatore di canti e musiche siciliani instancabile e rigoroso. Suoi sono tantissime cose emerse dall’antichità e dalla dimenticanza. Suo é anche il lavoro, non certo facile, di sistemare le scoperte in un quadro culturale e artistico ordinato e coerente. Carlo è un artista colto. Dotato di quella cultura vasta, anche umanistica, che gli consente di trovare testi popolari finemente poetici e di produrne di suoi. L’Opera andata in scena ieri con la ricchezza poetica che abbiamo conosciuto, ha respirato anche di questo suo sentire profondo. Chi ieri non é venuto, ha perso davvero una cosa bella. La chiamo così perché, non essendo un esperto su nulla di specificamente artistico, non so trovare termini adatti. Ho solo il mio sentire e questa mia parola che su di esso naviga e non si ferma. È questo mio sentire che mi fa chiudere la riflessione con una frase contenuta nell’ultimo canto, che la voce di Francesca ha sussurrato. Basterebbe solo questa per dire oltre la chiusura del racconto. E per riflettere tra la gioia e la melanconia. È bellissima. Parla Giuseppe, marito di Maria e padre di Gesù. Sembra che parli ai e dei padri di tutto il mondo:” Ahiu fattu quantu potti, chiù non potti spusa mia.”

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