di FRANCO CIMINO
Non ancora, ieri, aveva finito di recitare, e oggi di prendere il treno delle quattordici per Roma, che la eco della sua grande prestazione al Politeama si è fatta largo tra il breve passeggio domenicale e l’uscita delle chiese, fino all’ affollatissimo Centro Commerciale, e sul lungomare. In alcuni di questi luoghi ho sentito dire di persona, degli altri mi è stato riferito. Francesco Colella, la “sorpresa” già nota, ma oggi più sorprendente, è al centro dell’attenzione della Città. Ha rubato un po’ di spazio anche a quella per il Catanzaro, la cui amarezza per la seconda immeritata sconfitta, era assai diffusa. Altro spazio, purtroppo, non ne ha rubato, perché di dibattiti e di tematiche profonde sul versante della politica, qui, proprio non se ne vede l’ombra. I giornali, carta e rete, sono pieni di quelle emozioni che il “grandattomattatore” ci ha regalato con il suo Apuleio.
Io ne ho scritto pure molto, spinto da un’ondata di emozioni e di pensieri che ho avuto difficoltà a fermare nella scrittura che scorreva a fiumi. Oggi vi ritorno solo per un momento. Che è quello che di più mi è rimasto della splendida serata. Anzi, due. Sono due momenti di grande teatro. Di quelli di cui ho detto quando ho affermato che Francesco Colella fa spettacolo anche senza testo e racconta anche senza trama. Perché lui è racconto, lui è la scrittura, lui è la parola. Lui è la maschera. Lui è il movimento del corpo. Lui è teatro e teatrante, insieme. Finito “ Le Metamorfosi”, a sipario aperto ancora, “l’autore” inizia a raccontare di sé, ché il Teatro è la vita normale che sale sul palcoscenico. Non a caso, gli spettatori sono protagonisti attivi, anche se fermi sulle poltrone. Sanno che lì sopra si dice, apparentemente fingendo, di come sono loro. Lucio diventa Francesco, e riprende lo spettacolo. Così, come gli viene. Tra il comico, che commuove, e l’uomo pensoso, che inquieta, Francesco gioca con il premio che gli si vorrebbe consegnare.
Finge di sorprendersi, lo prende dalle mani dell’hostess, ma lo riconsegna perché è il sindaco con l’assessore e con Tonia, che glielo devono porgere. Sei mani, “ ma quantu pisa?” sembrava volesse dire. Poi, come un bambino, si inginocchia per ringraziare o pregare che gli venisse finalmente dato. Un tocco di teatralità straordinario. Il pubblico ad applaudire, a ridere. A domandare. Poi, dopo qualche secondo di interminabile silenzio, il colpo di teatro più grande. Francesco dismette i panni anche di quest’altro suo essere attore, e si riprende con fierezza il cognome. E ridiventa Francesco Colella.
Il catanzarese autentico, ragazzo semplice e umile. Uomo che ama. Il figlio devoto. Gira su se stesso quel corpo lungo e magro, che si assottiglia ancor di più mentre si abbassa di altezza, fa due passi in avanti verso il bordo del palco, guarda in prima fila in quei due due posti, che sul lato destro la iniziano. E, rivolto al pubblico, chiede un applauso fortissimo per i genitori, senza i quali non sarebbe giunto fin lì. In particolare, per il padre. Quel padre, già timido e schivo, oggi pure appesantito dalla fatica di una sofferenza fisica impegnativa, si alza in piedi di scatto e saluta lui gli spettatori. È stato, quello, uno dei momenti più emozionanti che si siano visti, improvvisati, qui da noi.
Una scena teatrale indimenticabile. Qui, l’attore è il figlio. Poi, con un rapido cambio di scena, artista e figlio si scambiano i ruoli. Il regista ufficiale dell’opera in scena si allontana, al suo posto Dino Colella, il papà dell’attore. Il suo silenzio. E quelle fragili braccia alzate, come una preghiera, la volontà di battersi ancora, un abbraccio promesso. Se avesse potuto, Francesco sarebbe sceso a prenderlo tra le braccia, e, fatto salire sulle sue spalle, lo avrebbe condotto in cima al monte più bello. Quello dal quale, come i nostri di Catanzaro, si guarda il mare. E con il suo sguardo di fanciullo incollato a quello mai spento del suo vecchio, avrebbe sussurrato:” Pa’, u vidi u mara? Domani ci iamu, e tu ‘mparami e novu a notare, ca on mu ‘mparavi ancora.”
Dall’Iliade ad Alvaro, da Enea per Anchise, ai figli di questa terra aspra e bagnata dai suoi mari, dall’antico Grecia alla vecchia Calabria, è passata, in quei minuti, tutta la bellezza del mondo. E la cultura continuativa di due grandi civiltà. Che non sia questa, la riproposizione cioè di un sentimento antico, che, attraverso l’amore, quale anche donazione, gratitudine, rispetto, fedeltà, ripristini anche il valore dell’autorità, da una parte, e quello dei “vecchi”, in quanto valore in sé, dall’altra, la strada più sicura per realizzare la Pace, partendo da noi, dai nostri piccoli spazi? Sì, che lo è. Che bello spettacolo, ieri, al Politeama e che lezione!
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