di FRANCO CIMINO
Ieri sera, ad Armonie d’Arte Festival, su quel magico palcoscenico che fa da tocco elegante ad una vista bellissima, il parco di Scolaciun, che io preferisco ancora chiamare di Borgia o della Roccelletta, si è esibita la Napoli più conosciuta. Quella più amata. Più amata nel mondo perché è la Città-Paese, che ha tutto. Ha tutto ciò che altre non hanno. Tutto quel ben di Dio, che tutti desiderano.
“Tien o mare”, che, sotto un Cielo esclusivo, dedicato, si chiude a golfo. Che sembra un lago d’oro e d’argento, quando Sole e Luna si alternano a carezzarlo, gelosi vicendevolmente. E, poi, si apre ad oceano su altri mondi. I più lontani. Un mare piccolo e rotondo, per riposare. Per pescare. Per sognare. Per amare. Per aspettare. Anche Parthenope. Che come una sirena esce dal mare, per disvelare il mistero più grande, l’Amore. Anzi, l’Ammore, con la m raddoppiata. Perché a Napoli tutto è sempre di più.
“N’esaggerazzione.” Il dolore è sempre “o chiù forte”. Un fatto grave, “na traggedia”. La partenza, “na luntananza” insopportabile. L’amore negato, finito, non maturato, l’incomprensione insopportabile. E la scelta dell’altro o la fine di un rapporto “nu tradiment, ca te taglie o core”.
Uguale la gioia, che subito copre la tristezza e il dolore, senza vie di mezzo o passaggi intermedi. A Napoli non esiste la mediazione e la mediatà “ ‘ndispone”. É comme o mllone: o è bianco o è rosso. Allora, la gioia è piena. É senza fine. “Pur’issa esaggerata!” Ed è così con la disperazione, che resta solo il tempo breve di essere superata con la speranza. Anzi, con la certezza: “cadd’a passá a nuttata”. E la notte passa, “ca l’aspetta o iuorn pe’ se repusà.”
Napoli, é poesia che si ferma “ncopp a via e nun se move” se non viene il forestiero a prendersela. Come è scritta, nella lingua di Napoli. Lingua armoniosa e dolce, che tutti possono capire. E parlare. Come viene. Ad orecchio, come la sto scrivendo io adesso. Ché è una lingua, questa, che si fa parlare. E ti parla. E si parla “comme vuó tu”.
Napoli, é stato detto ieri, “é na rivoluzzione”. Ed è vero. Mette il mondo sottosopra. La calma piatta non esiste. Solo il mare é una tavola, ma perché si quieta dopo il movimento. Napoli è terra che trema. Ma non è terremoto. É ribellione. É vulcano. Il suo vulcano. É “lu Vesuvie”. I napoletani non stanno mai fermi. Hanno il “Vesuvio in corpo”.
Napoli é melodia. Ed è tarantella. Poesia e commedia. Eduardo e Pulcinella. Napoli è madre. Madre vera, per la quale i figli, che sian bianchi o sian neri, o colore del caffè, “so’ tutt’e figlie bell.”
Questa Napoli è andata in scena tra recitazione e canto, tra parole e musiche, tra foto antiche riflesse sulle mura storiche del Parco e scintille di luce da luna e stelle nel cielo limpido e nero, ieri sera, portata per mano da due donne meravigliose.
Artiste vere entrambe. La prima, musicista “vagabonda” per amore della sua altra creatura “Armonie d’Arte Festival”, gemella di questo Parco Storico, da Lei, donna di cultura profonda e dalla parole fine, scoperto come palcoscenico d’arte e cultura sul mondo.
Chiara Giordano, della sua sensibilità di Donna e di persona, di promotrice d’arte e cultura, fa spettacolo aggiunto a quello che lei, con grazia ed eleganza, presenta.
L’altra Donna, é la protagonista dell’evento “musicalattoriale”, che già dice tutto, anche di lei, storia di attrice e di Donna, dal titolo SereNata a Napoli. Infatti, Serena Rossi, non solo é nata a Napoli, ma è Napoli. E lei di Napoli e della sua Napoli, ha raccontato ieri sera.
Due donne napoletane, Chiara lo è pure, ci hanno portato la Città universale, negli occhi e nel cuore, dove ogni canzone magnificamente interpretata da Serena, artista a tutto tondo e di talento oltre che donna bellissima e affascinante, é un inno alla vita. E all’Amore. Alla speranza. E alla Pace. Ché Napoli è anche Pace.
Questa Napoli narrata da Serena, ci è passata davanti nelle due ore che sono state un attimo. E con tutto il patrimonio che contiene. In particolare dal punto di vista morale e culturale, storico e umano.
I testi, che con una recitazione perfetta hanno danzato sulle labbra rosa dell’artista poliedrica, sono belli, intensi, poetici. E fanno della narrazione un concentrato di antropologia, storia, sociologia, psicologia. E di filosofia, tutta napoletana. Che coinvolge, persuade, incanta.
Filosofia, che si fa narrazione di ciò che Napoli è. E della Napoli che sarebbe dovuta essere e che sarà. La Napoli delle canzoni é quella sognata, faticata, combattuta. La Napoli, che ha combattuto e che combatte ancora, pur nel vecchio immaginario collettivo che la vorrebbe pigra, indolente, rassegnata.
Filosofia, che si fa favola, nella bocca degli anziani. E poesia nella penna dei poeti. Di quelli, in particolare, che hanno dato le parole alle musiche più belle, nelle canzoni intramontabili ed uniche della storia musicale di Napoli. Canzoni, che ancor prima dell’Ottocento, attraverso la prima parte del Novecento, giungono a noi come eterne. Nuove. E anche ritmicamente innovative.
Musiche, che hanno rinnovato la musica italiana senza farle perdere nulla della sua classicità. Musiche, che hanno ispirato quelle che da Napoli si sono mosse nel nuovo corso musicale italiano. Filosofia napoletana, autenticamente filosofia, anche caratterialmente napoletana. E cioè “bugiarda“. E vera. Disegno utopico di ciò che sarà, incantatrice di ciò che non è. Dialetticamente inventata dal ritmo del carattere fantasioso dei napoletani.
Filosofia, che però, ti dice che il dolore è una cosa utile, se non si può evitare. Ma che la gioia è più grande ancora quando sul dolore si costruisce la vita nuova. Filosofia, che ti spiega che la tristezza è la carezza sulla melanconia. E che essa è la dolcezza che si posa sul cuore per non farlo sentire solo nel momento più difficile. Quello quello della perdita, e della lontananza. Perché tanto poi arriverà l’allegrezza, che tutto fa passare e tutto fa tornare.
Per ricordare. L’allegria di Napoli è nella vita di Napoli. E nel contrasto storico che vi è stato tra il mondo chiuso dei palazzi della nobiltà, e poi dell’aristocrazia, e quello aperto della povertà. Mai chiusa dentro i “Bassi“, quegli stanzoni senza finestre, dove d’inverno ci si ripara dal freddo davanti al braciere. O nei corpi che si stringono tra di loro e nel fiato che si diffonde nella stanza. E dove d’estate invece si soffoca.
Non si respira. E il sudore schiacciato in quei lettoni, dove si dormiva in tanti, ammorbava ancor più fortemente l’aria. Anzi, ciò che si sentiva dall’assenza d’aria. La povertà, ah la povertà di Napoli! La sua vera ricchezza, che le ha dato quel carattere e quello spirito unico al mondo. Napoli è allegra perché “ce sta sempre o sole.” D’inverno, soprattutto. Il sole, sempre luminoso e caldo.
Se nei bassi non si poteva stare, né d’inverno né d’estate, neppure nelle altre stagioni, la vita vera, quella che ti dava anche un senso di liberazione dal tormento e dalla sfiducia, si svolgeva fuori. All’aperto. Quella filosofia dice che stare fuori, all’aperto, significa conoscere la natura, scrutarla con gli occhi dell’incanto. E con quelli dell’intelligenza, che l’interroga e te la fa spiegare. Per cui ti rende colto, scienziato.
Il napoletano, sin dalla più tenera età, conosce tutto del cielo, dei venti, delle nuvole. Conosce tutto del mare. Dei suoi colori. Delle sue correnti. Del suo interminabile scambio di colori con il cielo. Stare fuori, all’aperto, significa incontrare gli altri. Tutti gli altri. Nessuno escluso. E con ciascuno di loro fai ciò che fai con la bellezza della natura. Li guardi. Negli occhi. E in essi trovi tutta la bellezza del mondo.
In ciascuno di loro, il napoletano trova la bellezza vera. E la interroga. Interrogandosi a sua volta. Ad ogni sguardo trova la risposta giusta. Stare all’aperto e incontrare le persone, significa che parli loro. E da esse ti fai parlare. Di tutto e del niente. Se stai fuori, all’aperto, e incontri le persone, ti viene voglia di cantare. Le canzoni melodiche, le canzoni tristi, e poi quella dell’allegrezza. Liberatoria. Spirituale e carnale insieme.
E le gambe si muovono insieme alle braccia e alla testa. A ritmo sempre più frenetico, man mano che quello della musica sale. A colpi anche di fisarmoniche, chitarre, mandolini e tamburi. E quello spazio aperto diventa piazza. E tarantella. Si attende così il nuovo giorno. La nuova stagione. E il nuovo tempo. E il giorno della partenza per terre “assai luntane”. E quello dei ritorni. Si chiamava e si chiama ancora emigrazione.
Il napoletano per natura è emigrante. Ma un emigrante particolare. Perché sa di dover tornare. Dover tornare e tornare come dovere. Verso i propri figli. E verso la propria madre. Tornare a Napoli, che è madre, di cui si è figli. Napoli è l’Ammore”.
Tutto questo, é stata Serena Rossi. E di più, energia pura che da quel suo corpo elegante e leggero, si è espansa nell’aria, fondendosi a quella che si è liberata dalle profonde emozioni di un pubblico numeroso, melanconico e allegro.
Ed è stato un Vulcano, una terra tremante, un cielo illuminato, Scolacium, nel quale pure le stelle hanno cantato e pianto intorno alla Luna, altera e regina. Alla fine tutti sotto il palco a ballare con lei, la nuova principessa delle Roccelle, a fare “a ‘mmuina”. Che bellezza!
É Napoli che canta. Che ci canta in petto. E ci tarantella gli occhi. Grazie Serena. Resta bella. Resta Napoli. Non cambiare. Non farti cambiare.
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