di FRANCO CIMINO
Siamo in guerra e questa, che individualmente ci costa poco, per ora, la stiamo facendo quasi tutti. Si calcola che finalmente il novanta per cento degli italiani, sia scesa in “armi”, cioè in pigiama o in tuta. E in trincea, cioè nella propria casa, al chiuso di ogni comodità a lungo sconosciuta. Tengo fuori, naturalmente, da questa leggerezza espressiva sul dramma, tutti gli operatori sanitari e quanti dalla Protezione Civile alle Forze dell’Ordine, stanno eroicamente davvero sul campo di battaglia per salvare vite umane. Ma c’è una guerra che oggi silenzia per via della paura che fa novanta. Quella che capi dell’esercito nemico sentono nel pericolo di potersi di ammalare pure loro di quella malattia che azzera tutte le diversità. Ricchi e poveri, potenti e deboli, i primi e gli ultimi, i mafiosi e le loro vittime, oggi sono tristemente tutti uguali. Neppure la legge, secondo quella che compare nella didascalia di tutte le aule dei tribunali, ha fatto tanto. Solo il virus Covid 19 è uguale per tutti. Questo l’hanno capito prima di tutti i capi delle mafie, ed essendo nella maggior parte anziani, ed essendo la più parte “, essi si mettono prudentemente al riparo dal coronavirus. Ci vuole pazienza e capacità di passiva attesa, loro ce l’hanno in abbondanza. L’unico nemico che temono è questo. Un altro, inferiore, è la parola, specialmente quella dei giornalisti, degli scrittori e dei poeti.
Oggi, giorno della memoria in onore delle vittime innocenti della guerra delle mafie, non dobbiamo dimenticare due cose: che questa guerra riprenderà più forte e contro di noi, persone comuni; che finora il rapporto tra la forza ad esse oppositiva è quantificabile esattamente al contrario dell’impegno profuso dagli italiani contro il virus. E cioè solo il dieci per cento a combatterla e il novanta a starsene ferma, quieta, bella e docile. Chi, e sono tanti, perché ne ha paura; chi, e non sono pochi, perché “è guerra degli altri”; chi, e sono i rimanenti, perché “non è affar mio( infatti da sempre la più grande e antica delinquenza organizzata la chiamano “ cosa nostra”)quindi “ se la sbrighino loro”. Adesso che stare in casa ci pesa come assenza di libertà, il coronavirus si fa sempre più mortale e l’Italia si trova strettamente unita dalle Alpi alla Sicilia, dobbiamo dirlo forte, giurarlo solennemente, che le mafie le combatteremo tutte insieme, nell’unità di popolo che riteniamo di avere riconquistato, finalmente. Lo dobbiamo alle morti innocenti da loro prodotte.
Lo dobbiamo anche alle morti solitarie di queste settimane di guerra contro un nemico invisibile, dall’origine incerta e dalle finalità misteriose. Il giorno in cui le nostre case come prigioni si apriranno e noi tutti usciremo all’aperto e assaporeremo davvero il gusto della vera libertà, dobbiamo dirci, dirlo apertamente, che mai più consentiremo a qualsiasi illecito potere, nascosto o in doppiopetto, arrogante per il denaro o per la politica, di toglierci un solo grammo della nostra dignità. Mai più consentiremo che uno o pochi si facciano padroni di uno solo, di pochi o di molti, che appartengano alla nostra comunità, locale, regionale o nazionale, che sia. Soprattutto, urliamolo più forte che si possa, che mai più lasceremo alle mafie, alla ‘ndrangheta, ai mafiosi di ogni razza, agli ‘ndranghetisti di tutte le specie, di rubare le bellezze della nostra terra, svuotare le nostre coscienze come hanno fatto con i granai. Di occupare le nostre vite come hanno fatto con il territorio. Di tenerci anche un altro solo giorno schiavi. Ché, oggi che abbiamo visto qual è il colore della libertà proprio nel vederla repressa, sappiamo che essere liberi davvero è il primo varco verso la felicità. Ovvero, il primo strumento, quando contagiosamente divenisse collettiva, per liberare la Calabria da ogni violenza che finora l’ha isolata dal Paese e tenuta lontana dal Progresso.
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