di FRANCO CIMINO
E come potevamo noi cantare con il piede straniero sopra il cuore, fra i morti abbandonati nelle piazze sull'erba dura di ghiaccio, al lamento d'agnello dei fanciulli, all'urlo nero della madre che andava incontro al figlio crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento».
È una delle più belle poesie di Salvatore Quasimodo, scritta dopo l’occupazione di Milano da parte dei nazisti nel settembre del 1943. Parliamo del poeta che in quel momento si libera del più eccelso lirismo per entrare in una coscienza sociale e politica che lo accompagnerà molto nella sua poetica futura. Ci sarebbe tanto da dire su questo straordinario componimento e sulla profonda meditazione che il poeta fa sulla vita, sul suo valore. E sulla stessa poesia, quando si trova a fare i conti con le forze del male che la vita umiliano, sopprimono e, come corpi lasciati sull’erba fredda e dura, ancor più violentano nella sua dignità. È l’orrore della guerra, con i suoi tanti morti che non trovano immediata sepoltura, con il pianto straziato dei bambini in cerca del padre e l’urlo che lacera il cielo di una madre di fronte al corpo crocifisso del figlio, che rende inutile la poesia e la sua parola fa muta. “Figlio crocifisso sul palo del telegrafo”. La vita in contrasto con la tecnica, che alla vita aveva promesso prolungamento del suo tempo, prosperità e serenità. E la morte che non si ferma dinanzi a nulla se è la guerra a produrla.
Guerra e vita. Morte e futuro. Dolore e speranza. Vittoria e sconfitta.
Umanità e avidità. Uomo e potere. Fanciullezza e disincanto. Vecchiaia e attesa. Attesa della vecchiaia come diritto della vita. Sono le grandi questioni che ruotano attorno ai più grandi principi dell’esistenza, che lontano nel tempo risiedono. Principi che questa poesia di Quasimodo riportano alla viva attualità che l’Italia e il mondo intero stanno vivendo in questa nuova guerra mondiale, che nessuno ancora sa da dove provenga e da cosa. O da chi sia stata dichiarata. E contro chi se non contro l’essere umano e la stessa vita in ogni sua manifestazione. Se le cose stessero come ci sono state presentate da quando il coronavirus si è affacciato in Cina, potrebbe facilmente passare nella gente, e forse anche negli scienziati, il timore più grande. Quello cioè che vi sia qualcosa di disordinato nella natura, sempre più volgarmente manipolata dall’uomo. Una qualche segreta forza che si sia ribellata alla modernità e che la scienza e la tecnica abbia voluto sfidare per indicarne i limiti o per ammonirla a non oltrepassare la soglia della intangibilità della verità sulla vita tutta.
Una ribellione violenta contro la modernità. E qui mi fermo perché la mia poco robusta mente già si perde. Mi scuso anche di essermi inoltrato incautamente nella poetica di uno dei più grandi poeti di tutti i tempi.
Tuttavia essa, nella poesia che invito tutti a leggere, mi ha fatto riflettere su queste settimane di fuoco e su questa guerra che sta uccidendo migliaia di persone e sembra non volersi fermare, mentre la fatica di resisterle sembra cedere fortemente. Quando finirà questa assurda guerra e con quali perdite, umane e materiali, è difficile oggi ipotizzarlo dopo che tutte le previsioni degli scienziati più avvertiti sono saltate. Cosa fare allora, oltre che rispettare le disposizioni delle autorità sanitarie e i decreti dei governi? Stare tutti in silenzio e accompagnare la poesia muta.
Si appendano “le cetre alle fronde dei salici” e si attenda nel timore per le vite che lottano strenuamente. E si pianga per le migliaia di morti solitarie rimaste a lungo “sull’erba dura di ghiaccio”fino a quando quelle lunghe file di camion color verde scuro non le ha portate in un posto lontano dove potranno, si spera, recuperare almeno la dignità della morte.
Tutti noi, i fortunati scampati al pericolo, agli stessi salici appendiamo voci, chitarre e pianole, trombe e tamburelli, e quegli appuntamenti festosi quotidiani su pianerottoli e balconi, ché non abbiamo nessun orgoglio italico da mostrare in questo momento di indicibile dolore collettivo. Come dice il poeta:” e come potevamo noi cantare con il piede straniero sopra il cuore...
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