Cimino: "Vorrei essere Luigi Verrino dai suoi magnifici ottant'anni"

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Franco Cimino
  09 settembre 2025 16:56

di FRANCO CIMINO

Nei sentimenti più particolari, talvolta pericolosi, ci sono il desiderio di essere e l’invidia di non essere: essere qualcun altro, un altro da sé.

Io, che non ho mai sentito né provato il secondo, non ho mai avuto neppure la tentazione del primo. Non ho mai desiderato essere un altro.
Eppure, di grandi uomini ne ho incontrati tanti — alcuni davvero giganti.

E tuttavia, sarà colpa della vecchiaia che i miei anni sembrano denunciare contro la resistenza del mio corpo, sarà il bilancio della vita fatta, sarà lo slancio impetuoso verso una giovinezza antica, o sarà qualcosa che ancora non comprendo…
oggi, vorrei essere un altro. Per un po’. Per un giorno. Soltanto per un’ora, o anche solo per un minuto.

Vorrei approfittare dell’ammirazione che provo per una persona per capire che effetto fa sentirsi “un altro”, sentire la vita da una diversa prospettiva.
E siccome di uomini che, guardando il cielo, riescono quasi a toccarlo con un dito, ce ne sono pochissimi — non più delle dita di una mano — io scelgo lui: Luigi Verrino.
Ecco, vorrei essere lui. Anche solo per un giorno. O per un’ora.

Vorrei essere Luigi Verrino per appartenere a una famiglia povera degli anni ’40. Povera povera, con tanti figli. Una famiglia calabrese, di uno di quei piccoli paesi dell’entroterra, isolati dal mondo. Con genitori quasi analfabeti, dediti alla cura di un piccolo appezzamento di terra con cui sfamare i figli.

Un paese piccolo piccolo, come Zagarise, per esempio, che da poco distante nemmeno si vede. Un paese dove scorre lenta e dolente quell’umanità che ha costruito il mondo nuovo dalle rovine della guerra.

Un paese in cui i libri erano gli attrezzi da lavoro, le scuole erano baracche e stalle riadattate, e i primi maestri — talvolta gli unici — erano i genitori: la loro parola, la loro saggezza, le spalle curve dalla fatica.

Le immagini più vere e profonde per i bambini erano:
la schiena sempre piegata del padre sulla terra,
e quella ancora più curva della madre, piegata dal lavoro e dal dolore.
I loro volti, visti nella luce fioca della sera, dopo le immense fatiche del giorno, prima del riposo sempre troppo breve.

Vorrei essere Luigi Verrino bambino, diventato presto adulto, in quella modesta casa in cui le dita della creatività iniziarono a stringere una di quelle matite grosse e dure come rami d’albero.

Vorrei essere quel bambino, in cui già ardeva il genio: fantasioso, creativo. Vorrei dargli io quell’impulso, quel primo segno che avrebbe avviato la sua arte.
E non l’avrei mai soffocata, nemmeno quando — a 14 anni o poco più — con una valigia di cartone prestata da qualcuno che ricorderò per sempre, sono partito.

Con il coraggio dell’intelligenza, non con la forza della disperazione.
Partire. Andare lontano.
Non a 1300 chilometri, ma a 2000 anni di civiltà dal mio paese.
Partire per tornare.

Era il mio motto.
Il giuramento fatto alla mia terra e a mia madre.
Una terra che è madre, non matrigna, anche se ha dovuto lasciar andare i suoi figli.
Perché nessuna madre, nella mia terra, li lascia partire. Nemmeno per la guerra.
E non ha colpa della povertà in cui è stata costretta — negandole bellezza — da chi l’ha sfruttata. Anche strappandole i figli dal petto.

Vorrei essere Luigi Verrino adolescente, arrivato a Milano senza alcun appoggio, e lì messo a lavorare duramente, nella città delle promesse e della ricchezza.

Vorrei essere lui, trasformatosi da operaio a commerciante di materiali per l’edilizia. E poi, in pochi anni, imprenditore di successo.

In quella Milano da bere che non ti lasciava nemmeno il tempo di sognare, Luigi Verrino ha continuato a sognare.

E per non perdere i sogni, li ha fermati con le mani. Ancora non sapeva fossero mani d’artista. Quando ha cominciato a studiare disegno e pittura nelle scuole milanesi, tracciando prima con la matita, poi con i colori e i pennelli, ciò che la sua mente creava.

Vorrei essere quel Luigi Verrino giovane, calabrese a Milano, quando ha capito che le sue mani bruciavano d’ardore, e tremavano se restavano ferme.
Quando da aspirante pittore si è fatto manipolatore di creta, e da quella terra sono nate figure venute da chissà quale angolo remoto della mente.

Perché l’arte, l’ha capito subito, non è solo quella che si crea: è anche quella che si ama.

E così, curioso e appassionato, ha iniziato a cercare opere d’arte.
Prima quelle che trovava. Poi, conoscendo personalmente gli artisti, si è avvicinato alla contemporanea.
Guadagnava bene, con la sua piccola impresa di colori, tessuti e carte da parati. Ma i soldi, come gli aveva insegnato suo padre — un contadino — li gestiva così: una parte per la famiglia e i bisogni, una grande parte per il risparmio e gli investimenti e una piccola parte, ma sempre costante, per l’arte. Per comprare quadri. Per coltivare bellezza. Lo fece così tanto, che un giorno si accorse di non avere più pareti per appenderli. Milano, città dei sogni e dei dané. E lui lì, i suoi sogni, li realizzò. E con i suoi “dané”, creò una collezione.

Vorrei essere quel Luigi Verrino coraggioso, che — ancora giovane — di fronte alla scelta se diventare un “commendatore” sempre più ricco e importante a Milano, ha scelto di restare sé stesso. Ha scelto l’uomo, non il personaggio.
Il cuore, non il titolo. Il sogno, non il potere. Ha scelto di essere tutto questo qui, tra la sua Zagarise e la nostra Catanzaro. Vorrei essere Luigi Verrino per insegnare ai giovani che ci vuole coraggio non solo a partire, ma a non perdersi.A restare fedeli a sé stessi anche quando il mondo ti chiede di cambiare.A ricordarsi da dove si viene, anche quando si è arrivati lontano.E Luigi Verrino, tutto questo, non lo ha mai dimenticato. Perché la Calabria, la sua Calabria, gliel’ha ben impresso nella memoria del cuore.
Franco Cimino

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