di FRANCO CIMINO
Io sono un uomo fortunato. E appartengo a una generazione fortunata. Ho un’età che oggi, pur non essendo giovane, non è neppure considerata, al di là del mio stesso sentirla, vecchia. Lo è, invece, buona perché mi consente di guardare ancora lungo in avanti, volontà di Dio o leggi della vita permettendo, e, nel contempo, di guardare ancora più in profondità alle spalle. Persona e generazione fortunate non perché abbiano conosciuto solo la gioia e la ricchezza, ignorando totalmente povertà e dolore. Fortunate, perché la gioia, almeno la mia personale, è stata di gran lunga superiore al dolore più forte. Davvero insopportabile. E la paura, che abbiamo avvertito, meno forte delle rassicurazioni su di essa intervenute. E così le insicurezze (proprie delle diverse stagioni della vita individuale e dei passaggi su quelle tempo), meno intense delle sicurezze che hanno accompagnato generazione e persone. Parto da quest’ultima per dire del fatto odierno, che si copre del suo importante anniversario, un triste felice cinquantennale. La mia generazione non ha conosciuto né la guerra, né il fascismo che ce l’ha portata. Non ha conosciute le miserie materiali e morali che l’hanno accompagnata. Neppure le rovine caricate sulle macerie dei bombardamenti. E, però, ne ha sentito l’eco, l’odore malsano che ancora infestava l’aria della più bella primavera. E la sottile paura dei ritorni dagli angoli bui del “nostalgismo” operativo, ché il fascismo per lungo tempo è stato molto più che un’offesa seppellita sotto le macerie da esso stesso prodotte. La mia generazione ha vissuto fanciullezza e prima giovinezza( uso questo termine nonostante il significato che ha avuto nel tragico ventennio, anche nel motivetto di un’ancora più triste sua canzonetta) nel sentire alternativamente i grandi ideali democratici consegnatici, anche con la Costituzione, dalla lotta antifascista in quella straordinaria epopea che ancora commuove, e la paura di vederli insanguinati dai nemici della Democrazia e della Repubblica. Di giorno riempivamo di idealità le assemblee studentesche e le piazze, e di accesa militanza le sezioni di partito, le piazze e le vivaci discussioni tra amici e conoscenti. La Politica vivevamo come irrinunciabile condizione di vita, elemento fondante la nostra esistenza. Quella Politica ricca di persone che la facevano, soprattutto i giovani, o che la sostenevano parteggiando per uno dei tanti partiti che il pluralismo ci aveva donato, come pegno o anticipo della ricchezza che ricevevamo. Ideali unificanti, nella Politica quale spazio dell’unità possibile. E per le istituzioni, quale luoghi “ santificati”, in cui le diversità, mai dismesse, trovavano il punto della più alta unità. Tranne che per i fascisti dichiarati o nascosti, nostalgici e attivi, che pure le istituzioni utilizzavano, quel punto dell’unità del Paese era la Democrazia. La nostra, più forte e più consapevole, perché antifascista. Consegnata alla Repubblica del 2/3 giugno 1946 nata dall’antifascismo. E protetta, più che regolata, dalla Costituzione antifascista. Anti, non a-fascista, come taluni oggi vorrebbero che fosse considerata, magari attraverso modificazioni sostanziali della nostra Magna Carta, che ne svuotino il senso democratico più profondo. Quei giovani, ragazzini come me, di allora, hanno temuto che le forze del male attentassero al Bene, realizzato, riportando indietro, attraverso anche le alleanze sotterranee con quei paesi europei ancora sotto il dominio delle proprie dittature, il nostro Paese. La strategia stragista, iniziata clamorosamente con la bomba nella sede milanese della banca dell’Agricoltua, quel 12 dicembre del 1969, era lo strumento usato per trasformare il terrorismo in terrore. E, questo, nell’avvento dell’uomo forte e del regime autoritario per mettere quell’ordine nuovo, che già vecchio, l’Italia aveva conosciuto. Di notte, invece, i nostri sogni del mondo bellissimo, in cui tutti gli esseri umani vivessero in pace e in prosperità, si trasformavano in incubi. Sentivano negli orecchi il rumore stridente dei carri armati sull’asfalto delle strade di Roma. Forse, quel rumore non sempre fu sogno, se è vero delle due occasioni in cui, ancora la storia non dice, quei carri armati furono bloccati in partenza dalle caserme. Tante furono le stragi susseguitesi per oltre un decennio, prima che lasciassero il posto per un altro decennio al terrorismo rosso, che direttamente o non, di fatto sosteneva quelle strategie sopite dentro poteri esterni e in quelli interni deviati, ma mai cancellate, come la drammatica vicenda Moro dimostra apertamente ormai. Di quelle stragi nere, di cui ancora si sa stranamente molto poco, quella in piazza della Loggia a Brescia è stata, con i suoi diciannove morti e più di cento feriti gravi, forse la più grave. Lo è stata, di certo, per la scelta del luogo e per l’avvenimento colpiti, Brescia, città della Resistenza, la piazza simbolo della Democrazia, la manifestazione dei sindacati unitari indetta per mobilitare la gente contro la minaccia fascista rafforzatasi in quegli anni. Chi, dei politici odierni, ignoranti già di loro sul terreno della cultura in senso stretto, è nato, dopo quel maggio del1974, sentendosi presuntuosamente molto forte per questa giovinezza di cui tra l’altro non hanno merito, non può capire il significato più profondo di quella giornata. Di lutto. Di famiglie e persone. Di lutto del Paese. Di paura per le sorti dello stesso. Il cosa sarebbe potuto accadere dalle 10,40 di quel giorno, chi muoveva le fila, chi stava tradendo la Democrazia, chi complottava contro le istituzioni, quali forze straniere vi fossero dietro e a chi si sarebbe voluto vendere l’Italia, erano le domandi più inquietanti che ci ponevamo tutti. Paura e dolore, abbiamo sentito. Gli ideali che ci battevano in petto, accanto al cuore sempre acceso, al coraggio che ci animava nel non sentirci mai soli, ma, al contrario, popolo resistente, ci facevano affrontare dolore e paura nel modo più efficace. Ancora rivoluzionario. Scendere in piazza, occuparle tutte e farsi insieme esercito senza armi ma non disarmato della Repubblica Democratica, petto alle pallottole e bandiera della libertà in pugno, per dire No al fascino. No alla violenza. Fu così, che, inaugurata un’altra Resistenza, in altra forma, lunga fino ai prima anni ottanta, che fu salvata la Democrazia e il Paese. Con l’Italia, l’Europa democratica, che i giovani di oggi hanno potuto conoscere e vivere nella libertà, sebbene i venti di guerra e le ingiustizie più ingiuste le si stiano muovendosi contro. Quasi incontrastate. Ma questo è un altro tema, che riprenderemo dopo le europee dalle battaglie insistenti che stiamo facendo da tempo. Di quelle strage di Brescia ieri è stato il cinquantesimo anniversario. Il fatto che le Televisioni ormai monocanale ne dessero scarso risalto, e che di essa si sia parlato nei numerosi “monovocali” salotti televisivi solo per le assenze più qualificate del governo( un solo ministro presente) e della tardiva sterile dichiarazione del Presidente del Consiglio, che non ha mai in essa pronunciata la parole fascismo, e non del fatto in sé, è cosa assai grave. Il fatto che non si parlasse della sua lunga scia di sangue ancora visibile su quel pavimento (sangue a cui ancora non è stata resa piena giustizia), non si riflettesse sul valore della Democrazia e sui nuovi pericoli ricorrenti, sulla necessità che di quella giornata si discutesse nelle scuole per far prendere coscienza ai giovani della differenza che passa nettamente tra valori e disvalori, tra libertà e ciò che la nega, oggi, è stata cosa più dolorosa del ricordo. Non un’occasione mancata, ma la spia del cambiamento culturale prima che politico già intervenuto nel Paese e del quale le riforme costituzionali imminenti costituiranno il terreno di più fertile coltura. Rispetto a questa situazione grave e allarmante, dire, come dico anch’io, “ per fortuna il Presidente c’è” non è più sufficiente. Occorre una forte mobilitazione delle coscienze democratiche e un’attenta vigilanza. Adesso. Domani è già tardi. A dircelo anche da Brescia è proprio Sergio Mattarella. Il Presidente della Repubblica democratica. L’uomo della ferma dolcezza e del dialogo fecondo che il Parlamento del popolo sovrano ha liberamente scelto.
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