
di M. CLAUDIA CONIDI RIDOLA*
Nel diritto italiano l’omicidio del consenziente, disciplinato dall’articolo 579 del codice penale, rimane un reato: la morte procurata direttamente da un altro soggetto, anche quando la vittima esprima un consenso libero e consapevole, è punita con pene inferiori rispetto all’omicidio volontario, ma non per questo ammissibile. La legislazione nazionale non consente l’eutanasia attiva, mentre la giurisprudenza ha introdotto un’unica apertura riguardo al suicidio medicalmente assistito: la sentenza della Corte Costituzionale n. 242/2019 ha infatti stabilito la non punibilità dell’aiuto al suicidio quando ricorrano condizioni estremamente rigorose, come una patologia irreversibile, sofferenze intollerabili, dipendenza da trattamenti di sostegno vitale e piena capacità di autodeterminazione del paziente, con valutazione obbligatoria da parte del Servizio Sanitario e di un comitato etico.
Questa distinzione netta tra condotte penalmente rilevanti e condotte eccezionalmente non punibili costituisce il contesto tecnico-giuridico entro il quale si colloca la vicenda del suicidio assistito delle sorelle Kessler, un episodio che ha riportato l’attenzione sull’intreccio tra diritto, autodeterminazione e legami familiari. Nel suicidio assistito, a differenza dell’eutanasia, l’atto finale è compiuto dal soggetto stesso; in Italia questa possibilità è concessa solo entro la “porta stretta” definita dalla Consulta, e dunque la scelta delle Kessler è rimasta un gesto compiuto altrove, in un ordinamento che ammette ciò che il nostro ancora vieta. Colpisce però anche la dimensione umana della loro decisione: due sorelle che hanno condiviso tutto e che hanno scelto di condividere anche l’ultimo passo, in un legame totale che, per loro, era sufficiente e autosufficiente. Viene spontaneo confrontare questa scelta estrema con un’altra forma di morte, assai più diffusa ma meno evidente: quella che avviene tra fratelli vivi, quando uno dei due cancella l'altro per litigi nati da futili motivi, quando si mette una croce l’uno sull’altro per orgoglio, incapacità, immaturità emotiva. Questi “suicidi affettivi”,tipici di chi manifesta comunque un forte deficit emozionale,con conflitti interiori irrisolti, sono eticamente più devastanti dell’atto estremo compiuto da chi, pur nella sofferenza, resta unito.
All’opposto della rinuncia totale al legame vi sono persone che combattono per un giorno in più di vita, come la celebre attrice Eleonora Giorgi, che ha affrontato la malattia mantenendo salda la connessione con chi amava e trovando nella relazione con figli e nipoti il motivo per restare. Esistenze che si allungano finché resta qualcuno a cui aggrapparsi, mentre altre si concludono quando non resta altro che l’unione reciproca. Al di là delle norme, dei confini penali e delle definizioni giuridiche, la conclusione sembra sempre la stessa: la morte, qualunque forma assuma, appartiene davvero solo a chi resta, a chi conserva il ricordo, il vuoto, il senso ultimo di ciò che gli altri hanno scelto o sono stati costretti a lasciare.
*Avvocato
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