Claudio Maria Ciacci: "Caro Niccolò quando si gioca con Dio bisogna farlo sul serio"

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images Claudio Maria Ciacci: "Caro Niccolò quando si gioca con Dio bisogna farlo sul serio"
Claudio Maria Ciacci
  03 agosto 2025 12:04

di CLAUDIO MARIA CIACCI

E così, nell’afoso luglio calabrese, tra l’eco dei condizionatori rotti, l’ansia da esame e le ultime preghiere pre-appello, è giunto a noi un articolo tanto meditativo quanto involontariamente comico, pubblicato su La Nuova Calabria il 31 luglio ultimo scorso. A firmarlo, Niccolò Ruscelli, Rappresentante degli Studenti presso l’Università Magna Graecia di Catanzaro, che, tra una riunione di dipartimento e un caffè da 70 centesimi, si è concesso il lusso di scandagliare i misteri dell’Altissimo in un testo dal titolo altisonante: “Dov’è Dio? Nonostante le incertezze e le ingiustizie, Dio non è sparito”. LEGGI QUI

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Un esercizio di spiritualità emotiva che aspira al mistico, inciampa nel vago e finisce in una firma istituzionale che ha l’effetto di una buccia di banana sull’altare. Già dalle prime righe emerge il protagonista silenzioso del dramma: un Dio assente-presente, enigmatico, ritroso, una sorta di divinità in modalità “non disturbare”, che interviene solo quando tutto è crollato. Una figura che non consola, non risponde, ma semplicemente “c’è”. Una presenza passiva, latente, degna più del Budda che del Dio di Abramo. Eppure, secondo Ruscelli, è proprio in questa reticenza divina che si cela la vera risposta. Dio non sparisce, semplicemente si nasconde. Un po’ come lo studente che c’è al corso, ma tiene il microfono spento: presente sì, ma non pervenuto.

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Il paradosso si espande quando Ruscelli ci spiega che se Dio si rivelasse in modo chiaro e palese, l’uomo perderebbe la sua capacità di amare. E qui, Aristotele si rigira nel suo mausoleo, Agostino chiede un bicchiere di vino e Simone Weil invoca il copyright. Perché la tesi, apparentemente originale, suona in realtà come un pasticcio teologico che confonde libertà con assenza, amore con ignoranza, rivelazione con oppressione. Insomma: Dio c’è, ma se lo vedi troppo da vicino diventi una macchina emotiva difettosa. Il che è curioso, perché tutta la storia del cristianesimo si basa proprio sull’evento contrario, la rivelazione massima nel volto umano del Cristo. Eppure, nel teismo ruscelliano, Cristo sarebbe stato molto più efficace se avesse evitato di farsi vedere in giro, mantenendosi in un discreto anonimato metafisico.

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A questo punto, entra in scena l’empatia, che secondo l’autore non è solo una virtù, ma una forma di “resistenza”. Parola potente, carica di Storia, che qui viene sgonfiata nel giro di tre paragrafi. Perché, subito dopo aver esaltato l’empatia come balsamo dell’umano, ci viene spiegato che le relazioni sociali, i saluti, i gesti quotidiani sono “vuoti”, “falsi”, “formali”. Tradotto: abbraccia pure il prossimo tuo, ma non salutarlo troppo cordialmente, altrimenti sei schiavo della convenzione borghese. Una visione che ha il sapore di un Levi-Strauss in chiave TikTok, o di un Sartre che ha appena chiuso una storia su Instagram con la caption “l’enfer, c’est les ‘ciao’ in ascensore”. Il capolavoro concettuale arriva con la dichiarazione che il messaggio cristiano è urgente… ma va custodito in silenzio. Un’affermazione che riesce ad essere insieme evangelica e anti-evangelica, come se Matteo 28,19 fosse stato scritto da Kafka: “Andate e predicate, ma sottovoce, e possibilmente solo agli amici stretti”. È la teologia della discrezione, in cui l’annuncio si fa sussurro, l’evangelizzazione si chiude in un pensiero intimo, quasi privato, da diario con lucchetto. In questo schema, l’Incarnazione diventa un gesto fuori luogo, quasi maleducato, e gli apostoli dei rumorosi disturbatori del grande silenzio metafisico. Una mistica del riserbo che farebbe impallidire persino Plotino, abituato com’era a contemplare l’Uno senza disturbare.

Ma se il contenuto già vacilla come un impianto teologico costruito su PowerPoint, è con la firma che si arriva al sublime. Dopo riflessioni sull’invisibilità divina e l’empatia resistente, il nostro autore chiude con una solennità che pare tratta da un verbale d’assemblea: “Niccolò Ruscelli, Rappresentante degli studenti UMG”. E qui il lettore, già confuso ma ancora benevolo, ha un sussulto di ilarità. Perché se uno scrive una lettera aperta su Dio, l’eterno, la sofferenza e la salvezza, ma poi si firma come se stesse comunicando l’orario delle aule studio, il contrasto è talmente ridicolo da diventare poetico. San Paolo firmava “Apostolo per grazia di Dio”, ma probabilmente solo perché non aveva ricevuto l’accredito universitario. E allora viene da chiedersi: l’articolo è un atto di fede o un comunicato? Una preghiera o una mozione? Una testimonianza personale o una circolare dell’associazione studentesca? Manca solo che in fondo ci sia scritto: “L’articolo è stato approvato all’unanimità dal consiglio di rappresentanza”, con il sigillo dell’UMG e la disponibilità a fornire copie cartacee per i fuori sede.

Caro Niccolò, la tua passione è chiara, la tua tensione spirituale evidente. Ma un consiglio da chi alla filosofia è affezionato per mestiere e vocazione: quando si gioca con Dio, bisogna farlo sul serio. Non basta un lessico poetico per colmare le lacune logiche, né la buona volontà per navigare tra le pieghe della teodicea. E soprattutto: se vuoi scrivere una riflessione sul divino, fallo pure, ma lascia perdere la firma istituzionale. Perché quando Dio tace, ma a parlare è “il rappresentante degli studenti”, il rischio è che la trascendenza venga confusa con un’assemblea plenaria. E a quel punto, perfino Dio potrebbe leggersi l’articolo… e votare contro.

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