
di M. CLAUDIA CONIDI RIDOLA *
Viviamo una stagione complessa, probabilmente una delle più delicate della storia recente della nostra Repubblica. L’onda lunga delle vicende giudiziarie che hanno scosso gli ultimi decenni – dalle stragi di mafia del ’92 alle contraddizioni della gestione delle grandi inchieste, fino agli scandali che hanno investito la magistratura stessa – continua a incidere sul tessuto della fiducia collettiva.
Il cittadino comune, bombardato da notizie frammentarie, rivelazioni tardive, indagini che si aprono su indagini chiuse da tempo, e controversie interne agli organi giudiziari, vive in un clima di smarrimento. La percezione diffusa è quella di un crollo della credibilità delle istituzioni, in particolare di quelle chiamate a garantire imparzialità, trasparenza e serenità dell’amministrazione della giustizia.
Negli ultimi anni, figure di primo piano della magistratura – uomini che hanno ricoperto ruoli fondamentali nella lotta al crimine organizzato e che avrebbero dovuto incarnare l’idea stessa di rettitudine e fermezza – sono state coinvolte in vicende che, a prescindere dalle responsabilità penali, hanno incrinato l’immagine collettiva dell’intero organo giudiziario.
Lo scandalo che ha travolto l’ex presidente dell’ANM Luca Palamara ha rappresentato per molti cittadini uno spartiacque, mostrando un volto della magistratura fatto di correntismi, di manovre interne, di logiche di potere che sembrano lontane anni luce dall’idea di giustizia imparziale.
A questa percezione di sfiducia si aggiunge oggi il caso Stasi, con il PM Venditti finito sotto inchiesta. La vicenda, che ha riguardato la gestione di procedimenti penali di rilievo, contribuisce a consolidare nel cittadino medio la sensazione che la giustizia premi spesso la forma e il potere, e non la sostanza e la verità, alimentando l’idea che le regole possano piegarsi agli interessi di pochi, mentre la maggioranza paga le conseguenze.
In questo quadro già fragile, i dibattiti pubblici – dalle indagini riaperte sulle dinamiche legate alle stragi del ’92 ai conflitti tra procure, fino al confronto politico sulla separazione delle carriere – hanno contribuito ad alimentare un clima di diffusa confusione.
Quando perfino la gestione di eventi storici traumatici torna oggi al centro di polemiche e interrogativi istituzionali, il cittadino non può che sentirsi disorientato. E nel disorientamento, il sospetto diventa spesso più forte della fiducia.
Il rischio che stiamo correndo, oggi più che mai, è di vedere travolta l’idea stessa di giustizia come spazio di tutela per gli ultimi, per chi non ha mezzi, relazioni o potere. La sensazione – sempre più diffusa – è che, nel gioco complesso delle dinamiche istituzionali, a pagare sia sempre chi ha meno voce, mentre la giustizia diventa un terreno dove l’autoreferenzialità rischia di prevalere sulla trasparenza.
È in questo scenario che si colloca la discussione sulla separazione delle carriere: non solo come questione tecnica, ma come tentativo di ricostruire un rapporto di fiducia tra cittadini e magistratura, tra giurisdizione e società civile.
Il “clima di confusione” non è un fenomeno emotivo: è il risultato di anni di contraddizioni, di segnali incoerenti, di incapacità istituzionale di prendersi cura della propria credibilità.
Eppure, è proprio nei momenti di maggiore incertezza che lo Stato deve recuperare la capacità di ascoltare il Paese reale – quello che subisce processi interminabili, quello che vede la propria vita economica e familiare sospesa nelle maglie della giustizia, quello che pretende efficienza e imparzialità.
La fiducia non si ricostruisce con proclami. Si ricostruisce con i fatti.
Con trasparenza, responsabilità, riforme necessarie e una magistratura capace di guardare dentro sé stessa senza temere la verità.
Oggi più che mai, l’Italia ha bisogno di un sistema giudiziario forte, equilibrato, credibile.
E ha bisogno che i suoi cittadini possano tornare a credere che la giustizia non sia solo un ideale, ma una realtà che non fa differenze tra potenti e persone comuni.
*Avvocato
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