di FRANCO CIMINO
Caro papà, questa volta ti scrivo, questa notte lo faccio.
E non perché stia entrando il diciannove marzo, festa di San Giuseppe, padre di Gesù, e celebrata festa del papà.
Ti scrivo ché è da tanto che vorrei farlo.
Ci penso sempre, quasi ogni sera nelle tante in cui mi venite dal cuore in mente tu e mamma.
Poi, al mattino questo bisogno scompare sotto l’affluire di mille impegni.
Di notte sto dormendo poco, il sonno che non viene e più non mi inquieta, mi consente, finalmente, di dirti in questa breve missiva ciò che sento dentro.
Mi spinge a farlo questa drammatica situazione in cui l’umanità si è scoperta fragile e spaventata per colpa, pensa un po’ , di un banale virus.
Mi sento fragile anch’io e ho paura.
Le mie due figlie sono lontane, esposte allo stesso pericolo in un posto in cui lo danno per maggiormente aggressivo, sicuramente molto esteso.
Vorrei averle con me e proteggerle con il mio petto, sottrarle a ogni male con queste mie braccia ancora forti.
Non riesco, non posso. Non mi lasciano andare. Non è giusto che le raggiunga, ancor meno che siano loro a raggiungermi.
Questa condizione di padre disarmato mi deprime, mi umilia.
E penso a te per trovare forza in me.
Ci sono, mentre ti scrivo, tanti padri che stanno morendo.
La medicina ha difficoltà a salvarli e l’emergenza sanitaria ancor meno.
Sono vecchi, dicono, e non possono resistere, ribadiscono.
I posti di rianimazione non bastano per tutti gli ammalati, così loro diventano numeri e bare, davanti a un cimitero che non li contiene.
Non sono più volti, né storie. Non sono più un nome e un cognome. Solo numeri.
E ingombri solitari, folla muta e frammentata, aritmetiche solitudini più gravi di una malattia.
Questa malattia, papà mio, è molto contagiosa. Siamo costretti tutti a restare a casa.
A tutti è vietato di andare in ospedale per far visita ai pazienti.
Ciò che strazia è che questi padri muoiono soli, senza che vi sia un figlio che li accarezzi, gli tenga la mano, li guardi, incoraggiandoli nel loro ultimo andare.
E ancor più soli, imbucati in un furgone, vanno nella loro ultima dimora. Ora che possono essere i figli a seppellire i padri e le madri, questa solitudine si fa feroce e ingiusta. Una condanna assurda per una colpa non commessa.
Nessun padre come questi vecchi è colpevole di alcunché.
Siete, anche quelli un po’ più giovani, la generazione che ha ricostruito l’Italia dalle macerie della guerra e ricostruito la democrazia dall’infamia della dittatura.
Ci avete generati creature libere e ci avete fatto diventare uomini e donne belli.
Avete rinunciato a tanto per darci tutto, anche la forza di guardare al futuro,
e quei valori che il futuro ce l’avrebbero fatto immaginare solo in un modo: sereno, felice, quieto, prospero, democratico, giusto, pacifico. Umano.
Nessuna miseria, mai più povertà, nessuna violenza, ma solo amicizia e fraternità. Amicizia anche con la natura, da proteggere in ogni modo.
E fraternità con il cielo, dove torneremo a essere figli quando avremo varcato sereni la porta di questo che sta sopra di noi, con voi vecchi ad aspettarci sempre bambini.
Qualcosa è successo, papà, da quando te ne sei andato “vecchio” .
Questo mondo che ci avete lasciato, che tu mi hai lasciato, ha dimenticato i tuoi insegnamenti e accantonato quei valori, e si è fatto brutto.
In volto, si è fatto brutto. Nell’animo si è fatto brutto.
Ha inseguito vertiginosamente le ricchezze materiali, le ha conquistate senza distribuirle, ha fatto dello sviluppo il progresso, della tecnica il suo potere di dominio, delle guerre lo strumento per sistemare le divergenze e dare sfogo agli egoismi.
Sicuro di ogni successo, è diventato prepotente, mentre dell’arroganza ha fatto la sua chiave di lettura della modernità.
Per correre in braccio al potere ha lasciato per strada la sua umanità. Si è dimenticata dei vecchi, e quindi del cammino compiuto dall’uomo. Ha perso il contatto con la vita.
Adesso che le sicurezze e la presunzione di infallibilità sono in ginocchio davanti a un banale microrganismo parassita, questo mondo ha paura e trema.
La morte che riteneva quasi battuta, gli si è presentata davanti con inflessibilità, scendendo in questi giorni a toccare età progressivamente inferiori a quella dei vecchi.
Io ho paura papà e tremo.
Non per me, ma per i miei figli. Per tutti i figli di tutti i padri e le madri.
È per questo che ti scrivo appena trattenendo le lacrime.
Per chiederti di darmi una mano ad essere io il padre che sei, e quella carezza,
dalle tue mani corpose e calde, che mi faccia sentire ancora figlio.
Il tuo bambino, che vince le sue paure tra le braccia tue e camminandoti a fianco diventa uomo.
Auguri papà, buona festa e buon onomastico. Con tutto il mio perenne amore.
Franco
u palicedru toi da’ vecchiaia
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