Coronavirus. La storia di Paolo Leone, medico catanzarese in trincea a Bergamo: "Siamo allo stremo, cerchiamo di salvare più vite possibili"

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images Coronavirus. La storia di Paolo Leone, medico catanzarese in trincea a Bergamo: "Siamo allo stremo, cerchiamo di salvare più vite possibili"
Paolo Leone, medico catanzarese che lavora a Bergamo

“Ci sono professionalità eccellenti in Calabria, ma la mia preoccupazione è strutturale. Se l’ondata dovesse essere simile a quella, non so se al sud ci sono i mezzi per fronteggiarla”

  27 marzo 2020 23:30

Di EDOARDO CORASANITI

Dopo un’ora e 45 minuti di telefonata, l’intervista con Paolo Leone spezza qualsiasi convenzione tra giornalista e intervistato. Per sua stessa ammissione diventa uno sfogo, una confessione, un modo per liberarsi del peso che da oltre un mese qualsiasi medico in trincea si porta dietro.

Questa guerra contro il nemico invisibile si combatte in ospedale, in corsia, senza elmetto e fucile, ma con tute e guanti, mascherine e ventilatori polmonari.

Paolo Leone è un soldato che non vuole essere chiamato eroe. “Faccio solo il lavoro che amo e spero di non ammalarmi per non andare via dalla prima linea”, ammette con la voce rotta dalla stanchezza figlia di 12 ore di lavoro, di un bicchiere d’aranciata e una vista da una casa che non è una casa, ma solo un alloggio temporaneo per proteggere sua moglie e suo figlio di 10 anni.

Nato e cresciuto a Catanzaro, il 48enne anestesista e rianimatore Paolo Leone si trasferisce in Lombardia nel 2013. Lavora all’ospedale Bolognini di Seriate (Bergamo), un presidio giornaliero di guerra contro il Covid-19, il virus che sta spaventando il mondo per la sua elevata contagiosità e aggressività. Inoltre, è anche sul territorio attraverso il 118. 

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Siamo allo stremo, non possiamo mollare però anche l’impatto psicologico è devastante”. Se la malattia uccide i pazienti, spaventa e devasta la mente degli operatori sanitari.

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Nessuno poteva immaginare che la cronistoria avrebbe raccontato ad oggi 66.414 malati, 3372 in terapia intensiva, 9.134 morti. Sessantaseimilaquattrocentoquattordici malati, tremilatrecentosettantadue in terapia intensiva, novemilacentotrentaquattro morti. E’ il diario di una storia combattuta contro un nemico che non si vede, ma che nel suo silenzio trova la veste ideale.  Ci sono anche i guariti (10.950 in tutta Italia) ma, “Se vivi in ospedale 14 ore al giorno e vedi la gente morire, è difficile percepirli”.


Paolo Leone

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“L’unico vero farmaco è l’isolamento, che non vuol dire solo non andare al bar, ma significa che il nucleo familiare deve restare completamente fuori dal resto. Il vero problema sono gli asintomatici, tramiti occulti, che lo portano ai nonni, agli zii, a tutti. Ecco perché purtroppo bisogna ammettere che le restrizioni sono state tardive: dovevano essere prese e impedire la migrazione verso sud”. Perché il Covid-19 non fa sconti, non c’è classe sociale che risparmia. E la favola che “è letale solo agli anziani” è una menzogna. Poche ore dopo la conversazione è morto un ragazzo di 27 anni. Il Coronavirus diventa mortale per chi ha già complicanze, ma può essere molto aggressivo anche con chi non ha malattie pregresse.

“Siamo entrati in una dimensione che, se ci ferma a pensare, fa veramente spavento. Affrontiamo ogni giorno il nostro lavoro cercando di salvare più vite. Non abbiamo alternativa. Non c’è tempo per fermarsi”.

Il tempo. Il tempo è diventato una dimensione bilaterale, da una parte bisogna combatterlo andando più veloci, dall’altro non è più percepito come una misura della vita. Le giornate passano e alla fine della serata Paolo si chiede “Chissà se oggi sono stato contagiato”, “Chissà dove ho potuto contrarlo”, “Chissà se domani lo prenderò”. Con uno pensiero rivolto a stesso e uno ai suoi cari, costretti a vivere lontani da lui per evitare rischi. La sua casa da un mese è un bed and breakfast chissà dove e suo figlio è un’immagine che vede di tanto in tanto dalla finestra.

Ma non c’è solo lui, ci sono tanti altri medici e operatori sanitari che stanno a contatto con i 200 pazienti ricoverati, di cui 21 in terapia intensiva.

Il perimetro di gioco, l’ospedale, è cambiato radicalmente. Ortopedia, chirurgia, medicina generale, oculista, non esistono più. Tutti i medici hanno smesso di essere ortopedici, chirurghi, oculisti per indossare il camice di medici a tempo pieno contro il Coronavirus. Qualcuno di loro è stato contagiato, qualcuno è morto.


“Noi non siamo solo coloro che curano, ma anche gli unici contatti con il mondo esterno per i pazienti”, dice Paolo. Che proprio pochi giorni fa dà il play ad un videochiamata per consentire ad una nonna di guardare sua nipote. E’ solo uno schermo ma un’emozione, se autentica, arriva sempre al cuore.

Tanti altri dottori combattono in Calabria, dove lui è nato, ha studiato e lavorato. “Ci sono professionalità eccellenti in Calabria, ma la mia preoccupazione è strutturale. Se l’ondata dovesse essere simile a questa, non so se al sud ci sono i mezzi per fronteggiarla”.

Nelle sue immagini fuori dal reparto le ambulanze in fila per trasportare malati su malati, infetti su infetti, contagiati su contagiati, le bare che sfilano per Bergamo, simbolo di una ferita che dilania una città che ha smesso persino di fare rumore. Ce ne sono solo due, le sirene delle ambulanze e le campane che suonano a morto. Una popolazione di 122mila abitanti (oltre 130 sono morti dall'inizio dell'emergenza) che da terra prova a rialzarsi anche grazie alla macchina di solidarietà che si è innescata.

L’intervista sta per terminare, ma Paolo accelera i tempi: “Devo chiudere. Una persona dalla Calabria mi deve comunicare se è positiva al test. Se lo fosse, vorrebbe chiedermi qualcosa”. Dopo due minuti il telefono dell’intervistatore squilla di nuovo, è ancora Paolo, il medico: “E’ negativo, è negativo. Almeno una buona notizia”. Già, almeno una buona notizia.  

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