di FRANCO CIMINO
Caro don Mimmo, quando ho appreso di te, e dal mio padre pastore, Antonio, il vescovo, tu eri già figlio prediletto di madre Chiesa. Discreto e rispettoso, ti guardavo da lontano. Per vedere anche dove volessi andare. In quale direzione. E, soprattutto, se quella, appena “ continuata” dalla richiesta perentoria di quel tuo padre “ visionario” , fosse davvero l’Africa del mondo. E la periferia del nostro piccolissimo. Quello di Catanzaro.
La periferia che nessuno vedeva se non Lui , il nostro comune padre, che aveva scelto la Chiesa, quale Sua sposa. Te lo ricordi? Sono le Sue parole pronunciate fino alla fine, risposandola ogni giorno. Figlio suo, e del tuo amato maestro, don Tonino Bello, della tua Chiesa hai fatto l’altra mamma accanto alla tua, tanto amata. Hai indossato i pantaloni neri, sopra ci hai messo quella camicia dei preti, nera con colletto bianco di plastica, che “ sbottonavi” al caldo e alla fatica, sul petto quella croce sempre ferma, e sei andato a camminare all’interno di essa. Ci sei andato diuturnamente, quotidianamente, più incessantemente, più instancabilmente, con quella tua forza anche fisica di ragazzo, per giunta bellissimo davvero. Hai camminato per le strade della Città. Molte di queste tenute al buio completo. Dei lampioni, che, spogli e spenti, stavano, pure diradati, al posto degli alberi, che non venivano piantati. La periferia dei muretti rovinati e dei guard rail staccati dalle loro “ insane radici”, e delle erbacce su sterrati polverosi o “ pozzangherati”. Al buio di occhi che si posassero sui ragazzi e sui disperati adulti, che lì nascondevano il loro dolore di essere uomini. La rabbia di non essere stati mai visti. Nè dalle famiglie, troppo piegate sulle loro insoddisfatte prime necessità. Nè dalla scuola, troppo debole e culturalmente non attrezzata per capire di avere ricevuto, per l’amorevole cura, ragazzi da far crescere uomini, prima che studenti da far diventare “ scienziati” del nulla, esperti in tecniche professionali per il lavoro che ancora non c’è. La periferia senza mani che si muovessero verso di loro. Per stringere quelle scarnite, fredde, sporche. Anche di muco interiore, che sempre scende, come da riniti dal naso di quella “ gente” lì. Al buio di abbracci e di parole per loro. Al buio di comprensione e di solidarietà umana e materiale. Tu sei andato a cercarli. Li hai visti. Anzi, l’hai visto. L’uomo in ciascuno di loro. Uno per uno, li hai visti. Anche quando stavano isolati nel più drammatico gruppo dei pari. Soli. Erano. Soli, ovunque, sono. Isolati e soli. Fuggiaschi e scacciati, soli. Tu li hai guardati così.
Al singolare, in quella individualità, nella tua ricerca della Persona, che sapevi essere in loro, in lui. Ti sei avvicinato. E gli hai parlato. Uno a uno. Due occhi i tuoi, accesi, sui loro, i suoi, semichiusi verso il basso. Ti ho immaginato, prima, ti ho visto, poi. Da lontano sì, che i miei occhi miopi quasi non ti raggiungevano in quel buio che tutto anneriva. Ma ti ho visto nell’immaginario della figura gigantesca che avevo di te. E po, fisicamente. In ginocchio davanti a loro, a lui, piegato sulle cedevoli gambe. A parlargli piano sul suo silenzio di muro scalfito e bucato. Poche parole. Ne ho sentite alcune, anche se sussurrate. Il mio cuore le ha sentite: “guardami Francesco( il nome che gli hai dato), guardami. Io sono con te. Lasciati abbracciare. Ne ho bisogno io. Ho bisogno di prendere un po’ della tua grande bellezza. Nel tuo dolore c’è tanta umanità, che io ne ho bisogno per camminare in questo mondo. Ma tu,Francesco, non morire. Hai un compito straordinario. Aiutarci ad aiutare questo pianeta a essere più bello. Migliore di quello che non ti ha accolto e che oggi ti respinge. “ Ne hai salvati di questi Francesco, che ti hanno salvato. Anche dal rischio di non restare più con loro. Di abbandonarli pure tu. Il rischio di lasciare quella strada polverosa e infuocata d’estate e “ pozzangherata” e fredda dei nostri nudi inverni. Vi siete salvati insieme, loro sono diventati uomini e donne, ritornati persone. Tu sei cresciuto più bello, più vivo, più sano, più ricco d’umanità. Più cristiano con quel Vangelo che nella tua voce tenera e piana, si faceva Parola, di carne e sangue. Anima creatrice di giustizia e verità. Tu sei stato, da lì, missionario di un bene “ cancellato” dalla cultura del consumo e anche dalle più rovinose odierne ideologie politiche. Quello della ricerca della Giustizia. Per riportarla laddove è stata negata o indebolita. O nascosta. O confusa. O imbrogliata. Con quell’idea fissa nel tuo pensare. Nel tuo agire. La più semplice, detta , insegnata, urlata, dal tuo Gesù, il fratello che hai sempre seguito. Mai abbandonato, sempre pregato. In particolare, nei tuoi momenti, e non sono stati pochi, di sofferenza, di dolore acuto. Di solitudine profonda. Di stanchezza infinita. Di nostalgia di una giovinezza giovane e leggera. Momenti, i più drammatici, in cui ti sarà venuta la necessità personale di mollare. Magari, di fare semplicemente il parroco in qualche tranquilla parrocchia, a fare sfoggio di una buona cultura alle omelie delle domeniche tranquille nella Città tranquilla. E, perché no, a invecchiare in quel di Satriano, il tuo piccolo paese, che guarda il tuo mare. E per un tempo lungo tra le braccia di tua mamma. Invece, sei rimasto in quelle strada buia afosa e fredda. Ti ho visto, sai, con questo mio cuore, le tante volte in cui sei entrato ai grandi magazzini, per comprare il tuo solito giaccone nero. “Che fa, li colleziona?” Si sarà domandato qualcuno. Il mio cuore ti ha visto, li compravi, non per averne di nuovo, ma un altro da donare dopo averlo offerto a quel giovane, la sera prima.
Fossi presidente della Repubblica, ti nominerei cavaliere del giubbotto donato. Quanto tempo sei rimasto chino su quel ragazzo? Poco o molto, ti sei rialzato con lui. Solo quando, abbracciato e coperto del tuo mantello, l’hai portato a casa. Quella del Centro Calabrese di Solidarietà, che sempre quel Vescovo Santo ti aveva affidato e che tu hai trasformato, con piglio di autorevole capacità amministrativa, in una realtà di solidarietà e recupero tra le più importanti del Mezzogiorno. Quel ragazzo aveva bisogno di una casa, fuggito o cacciato, com’era, dalla propria. Una casa accogliente rispetto a quella in cui non si è sentito accolto. Una casa fisicamente intesa rispetto a quella che la sua famiglia non ha avuto, pure una stamberga che si chiamasse casa. Una casa, come tu la intendi. Spazio piccola anche in cui ci si incontra con i fratelli nell’amore. Nella quale il dialogo, anche degli occhi, é il veicolo della comprensione e della donazione di sé. Lo strumento attraverso il quale l’Amore si fa carne e sangue, cibo per la mente e il corpo. Vita comune, che si estende missionaria nelle strade del mondo, le nostre più vicine. Alla ricerca dell’umanità perduta e dei volti emaciati di chi dall’umanità é stato abbandonato. Questa è la Giustizia per te. Compito di ciascuno di noi é praticarla. Ogni giorno. Perché senza giustizia, che è solo l’applicazione del diritto all’eguaglianza, non vi è Libertà. Non vi è Democrazia. Non vi può essere Pace.
La Pace, che dalle tue fatiche emerge imperiosa quale riconoscimento del diritto di ogni diritto. La Pace è il luogo del Vita. Quello nella quale la Vita resta vestita della sua dignità. Io ti ho visto, amico mio, mentre faticavi in questa nostra Catanzaro, che non aveva, e non ha ancora, gli occhi aperti su quella strada. Non li vedeva quei ragazzi, e non li vede ancora, per restare quell’isola felice che si è sempre creduta, ingannando sé stessa prima che quanti dall’esterno la guardassero per ammirarla. Ancora oggi si fa vedere che la realtà è solo ciò che i nostri occhi guardano. Per cui ci siamo tutti educati convenientemente a guardare altrove. A guardare dove ci sono i nostri affetti, i figli su tutti. Le nostre ambizioni. I nostri personali interessi. I nostri desideri, dalla cultura materialistica e dell’effimero imposta. Io ho guardato dove andavi tu, e seppure non avessi preso il coraggio di affiancarti, ho provato a imparare a memoria la tua lezione e a farne la mia. Magari, soltanto retorica lezione dalla due tre “cattedre” che ho “ vissuto “. Quella di docente, padre, operatore politico e della militanza sociale. Quali che saranno i conti che farò al punto cruciale della mia esistenza, o avrò vinto o perso, incassato o sprecato, e quelli che farà sulla mia vita Colui che mi giudicherà, io sono contento di averti “imparainsegnato”( mi si lasci passare questo neologismo dell’ignorante quale sono). Averti conosciuto pur in assenza di frequentazione. Di averti visto da vicino.
Ricorderai, quel mio lontanissimo articolo, ampiamente diffuso da un importante quotidiano calabrese, dal titolo: “ Facciamo don Mimmo sindaco di Catanzaro.” Era un riconoscimento alla tua persona, al prete che sei da sempre. E nel contempo, una provocazione per quella politica mediocre, che non vedeva, e non vede ancora, la crescente povertà che si muoveva nelle periferie della Città. Non vedeva, non vede ancora, le periferie, che infatti, sono cresciute e in numero e in capacità di emarginazione individuale e di degrado sociale. Ne hai fatta di strada, amico mio, da Catanzaro a Napoli, da quella casa al palazzo della Diocesi più importante d’Europa. Da Napoli a Roma. Dall’Eposcopio al Concistoro. Dalla Messa al Duomo e nelle parrocchie periferiche al prossimo Conclave, che sento ti vedrà protagonista, e tu sai che qui sbaglio poco. La strada percorsa é stata quella della tua strada. Qui hai incontrato un prete vestito di bianco che veniva, mai stanco, ferito gravemente e infermo, ma mai domo, da un Paese lontano”, e dallo stesso cammino. Ti ha riconosciuto. Si è avvicinato. Ti ha guardato negli occhi. Ti ha carezzato il volto. E ti ha detto le due parole che quel mio cuore ha sentito :” vieni don Mimmo, camminiamo insieme. E aiutami. A continuare ad amare donandomi tutto.
Donandoci tutto. In nome del Vangelo. Per salvare gli esseri umani dalle nostre colpe. E ridare dignità e giustizia a chi soffre l’ingiustizia e la menzogna imposte loro. Continuiamo nel compito che ci siamo dati. Non di convertire al nostro credo religioso, ma a quello della vita. Ché Dio ci penserà da Lui stesso. “ Don Mimmo, so delle tue enormi altre fatiche, che non ti consentiranno più il tempo di leggere neppure i miei non frequenti watzapp. Si quali hai sempre affettuosamente risposto. Leggimi solo in questa. Leggi le mie parole antiche. I miei sentimenti d’amore e gratitudine. Leggi le mie lacrime di uomo pensoso e di “ ragazzo” felice per te. Leggi la mia preghiera al nostro Dio, affinché ti illumini il pensiero e dia vita ai tuoi passi. Leggi la mia preghiera a te: di non cambiare strada, di restare vestito con quell’abito vecchio, di non stancarti di amare. E fammi vedere, anche da qui, domani, sette dicembre, quel pianto che ha rigato il tuo viso quando nel Duomo di Catanzaro ti hanno vestito da Vescovo.
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