“Non sarebbe bastata la denuncia di un padre disperato per la tragica condizione in cui viveva la figlia, senza le intercettazioni. Dismetterle o anche soltanto limitarle nella ricerca della prova, significa fare un passo indietro di decenni”.
E’ lapidaria l’affermazione del procuratore della Repubblica di Palmi, Emanuele Crescenti, riguardo l’operazione ‘Perseverant’ eseguita dai carabinieri del comando provinciale che ha portato in carcere nove persone e nove indagati che si era sviluppato nei comuni di Taurianova, Rosarno e Platì, dietro cui è facile immaginare l’ombra lunga della ‘ndrangheta. Come emerge dall’ordinanza del gip Federica Giovinazzo, la ragazza era finita nella tragica esperienza della tossicodipendenza, assumendo le sostanze – cocaina e marijuana – anche per endovena, fino alla decisione del genitore di raccontare il calvario ai carabinieri di San Martino di Taurianova.
“La collaborazione di un genitore e di altri cittadini – ha detto ancora il procuratore di Palmi – è un segnale di speranza per la Calabria per potere garantire un presidio di legalità e di controllo del territorio. La Calabria – ha aggiunto Crescenti – è terra dove non soltanto arriva e si smercia la droga, ma dove si ci si preoccupa anche di coltivarla. Infatti non sono rare le indagini in cui scopriamo la coltivazione di marijuana e la creazione dello stupefacente con tecniche spesso raffinate”.
Tra gli indagati più attivi nel settore illecito di sostanze stupefacenti, secondo il giudice delle indagini preliminari, “c’erano Marco Recupero, Antonio Larosa e il fratello Giuseppe Larosa, i quali agivano in concorso con altri soggetti, mentre l’attività di produzione e gestione dello stupefacente avveniva all’interno di un bunker occultato a circa 3 metri sotto terra e adibito alla coltivazione di marijuana. Al suo interno, Recupero si dedicava sia alla coltivazione, alla successiva gestione dello stupefacente e all’attività di compravendita, e le conversazioni intercettate si connotano per l’impiego di un linguaggio criptico e allusivo, oltre che per l‘utilizzo sistematico di canali di comunicazione quali WhatsApp, Instagram e Telegram, evidentemente ritenuti dagli indagati canali di comunicazione più “sicuri”.
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