Economia, la riflessione di Sgrò: "Più studi e meno ti pagano, i nuovi proletari?"

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La provocatoria analisi dell’imprenditore soveratese che, con un post su Facebook, ha innescato un acceso dibattito sul valore del lavoro specializzato

  23 settembre 2025 12:32

 
«Stipendi e crescita delle borse: due facce della stessa medaglia». Con questa riflessione, l’imprenditore Giovanni Sgrò ha acceso una discussione sui social che tocca un nervo scoperto della società italiana: il rapporto tra formazione, retribuzione e dignità del lavoro.
Sgrò parte da un dato che non lascia indifferenti: un giovane ingegnere informatico, assunto da una multinazionale a Cosenza, porta a casa 1.600 euro netti al mese. Una cifra che, a prima vista, può sembrare accettabile, ma che diventa problematica se confrontata con gli undici anni di studi alle spalle, i sacrifici economici per formarsi e i costi di trasferimento e mantenimento lontano dal proprio paese d’origine. «È normale che un laureato guadagni come chi svolge lavori dignitosi ma che non richiedono lo stesso percorso formativo?», si chiede Sgrò, denunciando la contraddizione di un sistema che premia sempre meno la specializzazione.
La provocazione richiama, non a caso, le analisi di Marx: la storia della lotta di classe tra borghesia e proletariato, la critica a un capitalismo che genera disuguaglianza e alienazione. Secondo Sgrò, la situazione attuale non è molto diversa: il lavoro intellettuale e tecnico viene svalutato, mentre i mercati finanziari corrono, allargando la forbice tra ricchezza prodotta e ricchezza distribuita.
Il rischio, sostiene l’imprenditore soveratese, è quello di una “nuova povertà istruita”: professionisti formati e competenti costretti ad accettare salari che mortificano impegno e competenze. Una dinamica che non riguarda solo il Sud o il settore privato: «Attenzione – avverte – perché al Nord le cose non vanno meglio, e nemmeno nel pubblico».
Il punto non è mettere in contrapposizione i diversi lavori, ma sottolineare l’assurdità di un sistema che svuota i piccoli centri, spinge i giovani verso le grandi città, arricchisce immobiliaristi e multinazionali e, nel frattempo, lascia intere generazioni senza adeguati riconoscimenti economici.
La conclusione di Sgrò è amara ma non priva di uno spirito critico costruttivo: la politica, oggi, sembra complice di questo processo. Non basta più parlare genericamente di “sviluppo”: occorre interrogarsi sul suo significato concreto. Perché se sviluppo significa depauperare i territori, generare disuguaglianze e comprimere gli stipendi dei più preparati, allora è giusto chiedersi se non stiamo assistendo davvero alla nascita dei “nuovi proletari” del XXI secolo.
 
 

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