di FELICE FORESTA
Di Lombardi, fino a quella sera di novembre, conoscevo solo un calciatore. Biondo, sino al limitare dell’albino, roccioso e capitano. Adriano, mi pare fosse il suo nome, e giocava con l’Avellino. Guarda un po’, proprio con i biancoverdi dell’Irpinia.
Aspri, indomiti e leali, come i lupi, i biancoverdi dell’Irpinia.
Poi, quel minuto e mezzo di una fredda domenica al confine di dicembre, di Lombardi conobbi, anzi conoscemmo tutti, anche un angelo.
Sant’Angelo dei Lombardi, un paese dell’Irpinia, appunto. Paese di santi, di dei e di papi. Arroccato in se stesso, e nel suo guscio di chiocciola.Un paese come tanti.
Un paese come tanti paesi calabresi, dove la vita è il riassunto della fatica, di lenzuola che profumano di flanella, e di vecchi che, tra una briscola e una nazionale senza filtro, ti spiegano il senso del cammino.
Forse, quei due vecchi, che compaiono nella foto, oggi non ci sono più, avranno smesso di camminare.
Forse fra le macerie non avranno trovato più loro casa, un cane o, chissà, un figlio.
Quei vecchi, come tanti, però, ci parlano ancora.
Adesso che, da quel maledetto 23 novembre 1980, sono cambiate tante cose, adesso che siamo tutti un po’ più vecchi e non vediamo più Domenica Sprint alla TV, non abbiamo più paura della versione di greco del lunedì mattina, e non crediamo più alle favole.
A quella favola che piace a tanti perché la menzogna piace.
A quella favola secondo cui il Sud è morto perché nessuno vuole lavorare, dove tutti imbrogliano anche con la luce del giorno, o con il Signore sul sagrato di una chiesa.
A quella favola che, invece, non è così.
Perché il Sud non muore. Sì, il Sud non muore.
È ferito ancora da quel 23 novembre 1980. Forse da prima. Forse da sempre.
Sanguina ma non muore, il Sud. Il mio, il nostro Sud. Si ferisce ancora, anche con l’acqua.
Il Sud, però, non muore.
Perché andare controcorrente, contro l’acqua di fiumare imbazzarrite o contro la Storia, ti forgia, ti regala i calli sulle dita e la scorza sulla scatola dove albeggia l’anima, perché al Sud la solidarietà ha mille volti e nessun nome.
Un nome, però, mi tocca farlo. Anzi, più di uno.
Perché, a dare un mano in Irpinia, c'erano pure sedici persone di Catanzaro. La mia città, oggi vessata dalla sconfitta e da una solitudine inquieta.
C’erano Massimo Santo, Pietro Falbo, Enzo, Brunello, e altri ancora, tutti pronti a raccogliere l’invito del prof. Angelo Gambioli.
Forse, nessuno lo sa. Furono, pure, insigniti qualche tempo dopo dal Ministero con tanto di diploma di benemerenza e medaglia al merito.
Tra i sedici piccoli eroi, in Irpinia c'era, pure, Eugenio Perrone. A ingoiare polvere e morte. A imparare come si fa a caricarsi sulla groppa il taglio del dolore. Quello che ti serve per capire gli altri.
Sì, allora è proprio così.
Il Sud non muore.
Quando si piega, quando sembra cadere ma non cade, è solo perché cammina sui passi sghembi di due anziani.
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