Festival d’Autunno XXII, il 10 ottobre lo spettacolo “To My Skin”: intervista al coreografo de Candia

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images Festival d’Autunno XXII, il 10 ottobre lo spettacolo “To My Skin”: intervista al coreografo de Candia

  07 ottobre 2025 10:20

di CARLO MIGNOLLI

Il Festival d’Autunno porta in scena, al Teatro Comunale di Catanzaro, il 10 ottobre alle ore 21:00, To My Skin, il dittico di danza contemporanea firmato dalla Cornelia Dance Company. Due coreografie, Before/After di Mauro de Candia e Ardor di Antonio Ruz, affrontano il tema del cambiamento climatico e dei suoi effetti estremi, evocando attraverso il corpo le grandi estinzioni di massa e invitando a una riflessione urgente sul rapporto tra uomo e natura. Si tratta dell’ultima anteprima della rassegna che partirà ufficialmente l’11 ottobre al Teatro Politeama con Cleopatra.

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Il maestro Mauro de Candia ha approfondito ai nostri microfoni il significato e il processo creativo della sua creazione Before/After e ci ha spiegato come la danza, a suo parere, può diventare strumento di coscienza ecologica e sociale.

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L’INTERVISTA

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A Catanzaro, in prima nazionale, lo spettacolo To My Skin, per l’anteprima della XXII edizione del Festival d’Autunno. Parliamo di questo spettacolo che affronta un tema importantissimo come quello del cambiamento climatico, in modo poetico e corporeo. Come nasce l’idea di tradurre un tema così globale attraverso il movimento, attraverso la danza?
«L’idea nasce dal direttore della Compagnia Cornelia, che è Nyko Piscopo, e lui è anche coreografo. Ha chiesto a me e a un altro coreografo, lo spagnolo Antonio Ruz, di toccare due elementi importanti: il freddo e il caldo. È stato interessante, e direi anche significativo, che la danza si affacci a questi temi, soprattutto con una compagnia giovane e fatta da giovani, come appunto quella di Piscopo, la Cornelia. Io, nella specificità, ho curato la parte del freddo, perché questo è ciò che mi è stato commissionato, con il titolo Before/After. Ho voluto raccontare, in realtà, il “mentre”, cioè la parte del prima di arrivare allo scioglimento, una situazione complessa, dove si perdono delle strutture - se pensiamo al ghiaccio - e quindi alla trasformazione, al cambiamento di forma. Con la danza e con il corpo, essendo esseri umani, o diversamente umani, abbiamo allargato il discorso a una condizione di adattamento a un cambiamento che spesso non è organico o naturale, come le alte o le basse temperature. Su questi elementi abbiamo sviluppato un lavoro che è un duetto, con due soli danzatori, sul tema del freddo».

Com’è stato collaborare e confrontarsi con il coreografo Antonio Ruz e coabitare lo stesso spettacolo con un’altra poetica coreografica?

«Assolutamente interessante. Avendo visto anche il lavoro che ha fatto Antonio, trovo che sia stimolante offrire non soltanto due aspetti diversi, ma anche metterli insieme: se vogliamo, rappresentano gli estremi, ma hanno dei punti di contatto. Tanto è vero che, pur essendo due lavori distinti, non saranno separati da una pausa, ma verranno presentati uno dopo l’altro. È stato interessante per i danzatori, ma anche per il pubblico, che questi due temi siano trattati da due coreografi diversi. Ognuno ha portato il proprio sguardo, e in entrambi i lavori c’è stato un processo creativo di squadra: anche gli interpreti hanno contribuito con le loro impressioni, visioni e stati d’animo, che poi insieme abbiamo rielaborato in una scrittura coreografica».

I danzatori hanno affrontato sfide fisiche intense per rappresentare condizioni estreme come caldo e gelo. Come ha guidato il gruppo nel rendere credibili queste sensazioni sul palco?

«Proprio attraverso la fisicità. Anche durante il filaggio, si sente e si vede il dover combattere e resistere. Il mio duetto, come anche il lavoro di Antonio - che è un lavoro di gruppo - è molto fisico. Resistere o sopravvivere: ognuno porta il proprio sguardo e la propria sensibilità al freddo o al caldo, ma comunque è un’azione fisica. I danzatori lo fanno realmente in scena, non è un lavoro teatrale “finto”, è proprio fisico, e questo si percepisce. Abbiamo lavorato molto sulla stamina e sulla resistenza: venti minuti per il mio passo a due e altri venti per il gruppo. L’obiettivo era vivere questo momento di resistenza con forza, e nella ripetizione trovare la capacità di abitare uno stato che è sia d’animo sia fisico».

Qual è il messaggio centrale che vuole trasmettere riguardo alle grandi estinzioni di massa e al rapporto tra uomo e natura?

«In generale cerco solo di aprire uno sguardo, di stimolare una riflessione. Penso che fare degli statement sia riduttivo, perché nessuno possiede la verità. Sono prospettive, punti di vista. Durante il processo creativo ci siamo resi conto che siamo un microcosmo in un grande cosmo, qualcosa di più grande di noi. Dovremmo lavorare meno sulla superbia, sul voler accentrare, e invece aprirci a un mondo molto più vasto, per apprezzarlo e non distruggerlo. A volte si agisce pensando di avere una visione globale, ma non è così. Avere questa consapevolezza, più concreta e onesta, può permetterci di sviluppare un rapporto con il clima più rispettoso. È anche una questione di rispetto».

Il messaggio che vuole trasmettere è più riflessivo, emotivo o provocatorio?

«Sicuramente sarà emotivo, perché la danza è un linguaggio emotivo. Il pubblico viene confrontato con emozioni che magari non percepisce razionalmente, ma sente nel corpo. Ecco perché si chiama spettacolo dal vivo: può collegare emozione e riflessione, corpo e intelletto. Se provocare significa smuovere qualcosa, allora sì, assolutamente, è quello che uno si augura. La provocazione fine a sé stessa non mi appartiene. Penso che il corpo di chi guarda entrerà in uno stato emotivo, magari anche di rigetto, perché il duetto non concede sconti, nemmeno a livello musicale. La musica è fredda, ingombrante. Abbiamo voluto creare uno spazio emotivamente e sonoramente forte. Penso che nessuno resterà indifferente: mi auguro che ognuno possa pensare e riflettere in base alle sensazioni che il duetto - così come il lavoro di Antonio - susciterà. Questo è ciò che ognuno di noi si augura».

Crede che l’arte della danza possa essere uno strumento efficace per sensibilizzare su temi come il cambiamento climatico?

«Assolutamente sì, se guardiamo alla danza non solo come elemento virtuosistico o spettacolare. La danza fa parte del quotidiano: pensiamo alla danza terapia, alla danza di comunità, ma anche alle danze rituali o tribali. Il movimento è qualcosa di arcaico, che esiste da quando esiste l’uomo. Nella forma più spettacolare, penso che realizzare produzioni collegate al tempo che viviamo - e che trattino tematiche importanti - possa avere un valore aggiunto. Il pubblico non viene soltanto per vedere momenti fisici o virtuosistici, ma per vivere qualcosa che parla del presente. E questo, sì, può muovere le coscienze e avere una valenza reale».

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