Filippo Veltri: "Sciascia e l'antimafia dei professionisti"

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Filippo Veltri
  10 gennaio 2021 08:38

di FILIPPO VELTRI

 Nel centesimo anniversario della sua nascita (Racalmuto, 8 gennaio 1921), a Leonardo Sciascia è capitato e sta capitando qualcosa di simile a quello che accadde in morte a Giovanni Falcone. L’omaggio più partecipe, commosso e riconoscente è infatti quello dei suoi peggiori nemici; di quelli che a Sciascia non perdonarono il tradimento del “realismo antimafia” – la variante domestica e giornalistico-giudiziaria del realismo socialista sovietico – come a Falcone non fu perdonato il tradimento della corporazione antimafiosa, il protagonismo eterodosso, le deviazioni dall’ideologia dell’emergenza permanente e il pensiero eccentrico, perfettamente rappresentato dal suo sostegno alla separazione delle carriere dei magistrati.

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La polemica sui professionisti dell’antimafia – che non fu uno scivolone  ma il cuore dello scandalo di questo illuminista consapevole di (dovere) essere uno straniero nella sua patria italiana – fece esplodere una differenza letteralmente insopportabile per i teorici della giustizia “combattente”: la lotta alla mafia e l’amore per il diritto non erano per Sciascia istanze distinte  ma due facce della stessa medaglia, due aspetti non disgiungibili della passione per la giustizia come esercizio di ragione. 

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Sciascia disprezzava e soprattutto temeva la mafia come temeva e disprezzava un’antimafia rovesciata nel suo uguale e contrario, in un’affermazione di un potere buono contro uno cattivo, cioè semplicemente nella lotta di un potere contro un altro.

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  Sciascia iniziò a scrivere di mafia quando la mafia, ufficialmente, ancora “non esisteva” e vi trovò le tracce non solo di un atavismo siciliano deteriore, ma di un’ideologia nazionale ben più pervasiva.  Fu accusato di essere in combutta con Sindona, come a Falcone toccò misurarsi con tipi come Leoluca Orlando, che lo incolpava di tenere nascoste nei cassetti le prove dei delitti di mafia.

Quando accettò la candidatura di Marco Pannella per il Partito radicale alle elezioni politiche ed europee del 1979 – inaugurando un sodalizio che durò fino alla sua morte – obbedì a un imperativo morale sofferto, ma si mise all’opera con quell’agonismo razionale che faceva innamorare i suoi amici e impazzire i suoi avversari e che gli guadagnò negli ultimi anni di vita una popolarità probabilmente né voluta e né gradita.

  Non c’è praticamente romanzo o racconto di Sciascia che non sia politico, che non veda nella politica, cioè nel rapporto tra il potere e il diritto, tra la rappresentazione della realtà e la sua umana sostanza, il momento in cui si costituisce o si corrompe la forza dello Stato e delle relazioni sociali. La verità in Sciascia, tanto nel letterato, quanto nel polemista o nel critico eclettico che spaziava dalla teologia all’arte figurativa, è sempre politica e il “pirandellismo di natura” diventa non solo maschera, ma identità e quindi recitazione quasi involontaria della commedia del potere.

A 32 anni dalla sua morte e 100 dalla sua nascita, si può dire che di Sciascia nella vita pubblica italiana non è però rimasto quasi nulla. La resistenza delle minoranze contro la giustizia come prosecuzione della “guerra” (alla mafia, al terrorismo, alla corruzione) con altri mezzi e una pubblicistica ancora più minoritaria ma impegnata contro l’uso politico della giurisdizione e la monumentalizzazione dell’impegno antimafia come fonte di legittimazione universale hanno infatti preso il sopravvento. Con i guai e i drammi che vediamo giorno dopo giorno, dalle Alpi alla sua Sicilia e nel silenzio di una politica ormai asservita tutta, senza distinzione alcuna, ad altri poteri. Sciascia non avrebbe accettato tutto ciò

 

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