di FILIPPO VELTRI
“Immaginate di avere una madre, una sorella, un figlio, un neonato su una strada del genere, percorrere chilometri e chilometri, per poi essere respinti da una polizia di frontiera che, senza alcuna pietà, si arroga il diritto di togliere tutto ai migranti, anche di spogliarli, denudarli, privandoli delle scarpe e costringendoli a tornare verso l’opposto valico, quello che hanno attraversato prima”. Queste parole di Tania Paolino descrivono alla perfezione la tragedia che da giorni si sta consumando nel silenzio piu’ orrendo di tutti alle porte di casa nostra, a due passi da Trieste.
In Italia siamo tutti appresso alla sorte di Conte e del Conte ter ma delle cose serie pochi se ne occupano. Il silenzio piu’ assordante.
Nawal Soufi, assistente sociale e attivista per i diritti umani italo-marocchina, da giorni sta seguendo con i migranti la rotta balcanica. Dopo aver prestato loro soccorso nei campi profughi greci, ha deciso di farsi corpo che affianca altri corpi, per capire da dentro cosa significhi tentare la via della salvezza e subire le vessazioni di un Occidente sempre più al tramonto che considera Slovenia e Croazia ‘’paesi sicuri sul piano del rispetto dei diritti umani e delle convenzioni internazionali”.
“Paesi sicuri”? Al ministero dell’Interno debbono avere un concetto molto sui generis della sicurezza e c’è da chiedersi sulla base di quali informazioni il ministro formuli i propri giudizi. Non servono indagini complicate: basterebbe leggere i giornali o guardare le tv per sapere quanto siano “sicuri” la Slovenia, che espelle immediatamente i “riammessi” dall’Italia in Croazia, e la Croazia, che li espelle a sua volta in Bosnia o in Serbia non prima di averli riempiti di botte e sequestrato loro documenti, soldi, telefoni, vestiti, coperte, certe volte perfino le scarpe. Le scarpe, sì, perché senza scarpe i profughi non possono più muoversi, non possono camminare nella neve nei boschi alla ricerca di un varco, guadare un fiume, avventurarsi in città alla ricerca di un rifugio di mattoni o di lamiera.
Questo comportamento delle autorità croate è in aperto contrasto con l’appartenenza all’Unione europea. Non solo in termini generali e in linea di diritto, ma anche perché viola un preciso protocollo che il governo di Zagabria si è impegnato a mettere in atto per superare le remore che gli altri paesi membri e la Commissione di Bruxelles avevano nei confronti degli standard di rispetto dei diritti fondamentali nel paese che si candidava. Remore che esistono, ancora più forti, nei confronti della Bosnia-Erzegovina che ha presentato richiesta di adesione.
Ma prima che la legge avrebbe dovuto parlare il buon senso e la decenza, senza aspettare che il rigore della morale politica dovesse venir difeso e riaffermato nell’aula di un tribunale. La sola idea di rendersi complici della tragedia che si sta consumando in queste settimane dalle parti di Bihac, in Bosnia, dove migliaia di poveri cristi vagano nella neve, nei boschi della Croazia, dove la polizia e le squadracce razziste giocano alla caccia all’uomo come in un film dell’orrore dovrebbe suscitare un’ondata di indignazione nazionale. Che non c’e’.
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