Probabilmente la pasta è l’elemento della cucina italiana più conosciuto al mondo. Dici Italia e pensi alla pasta, alle sue molteplici forme, dagli spaghetti ai tortellini, dai maccheroni alle lasagne, “declinata” in ogni modo, col sugo, alla carbonara, ai funghi, al forno.
“Siamo quello che mangiamo” diceva il filosofo tedesco Ludwig Feuerbach. E la pasta non è altro che uno degli elementi della nostra secolare cultura. Proprio per questo motivo l’Italia è al primo posto per consumo pro capite di paste alimentari, con ben 23,5 kg all’anno. Non solo siamo grandi mangiatori di pasta ma siamo anche i maggiori produttori con quasi quattro milioni di tonnellate all’anno, seguiti da Stati Uniti (2 milioni), Turchia (1,9 milioni) ed Egitto (1,2 milioni). E anche i maggiori esportatori di pasta, basti pensare che il 62% del prodotto viene venduto all’estero tant’è che un piatto di pasta su quattro è italiano.
Se la pasta fosse una favola, si potrebbe dire, “c’era una volta in un paese lontano – lontano...” in una parte dell’Italia e del Mediterraneo chiamata “Magna Grecia”, intorno al IX sec. a. C., si realizzavano le cosiddette laganae come ci ricordano Aristofane e Orazio, descrivendole come delle fettuccine un po’ tozze realizzate spianando un impasto di acqua e farina e cuocendole in forno nel loro condimento. In particolare nell’antica Kroton, i laganon indicavano un foglio grande e piatto di pasta tagliato a strisce. La produzione era favorita anche dalle grandi colture di grano. Un elemento imprescindibile per la produzione della pasta.
Dalla Magna Grecia a Roma il passo è breve, il gastronomo latino Apicio inserisce questo tipo di pasta nel suo “De re coquinaria” e la descrive come una serie di sfoglie di pasta intercalate da carne e cotta al forno o condita con il garum (una salsa liquida, custodita in apposite anfore di terracotta, e prodotta con interiora di pesce e pesce salato).
Ma il viaggio nel tempo e la sua evoluzione ci porta qualche secolo dopo nuovamente nel cuore della Magna Grecia, in Calabria e in Sicilia. Il poeta arabo Ziryab nell’anno 852 descrive impasti di acqua e farina molto diffusi anche in quelle terre momentaneamente occupate dai mussulmani. La descrizione ci ricorda gli antenati dei vermicelli o degli spaghetti. Una pietra “tombale” per chi pensava che questo tipo di pasta fosse stato importato in Italia da Marco Polo, di ritorno dalla Cina.
In questo periodo storico fu introdotta una fondamentale innovazione: l’essiccazione, che permise la produzione di pasta secca e quindi la possibilità di essere trasportata senza che si deteriorasse diventando, di fatto un prodotto a lunga scadenza.
I vermicelli (perché simile a lunghi vermi) e gli spaghetti (perché simili a piccoli spaghi), come ci ricorda il celebre geografo arabo Al-Idrisi nel Libro di Ruggero del 1154 erano dei metodi di lavorazione della pasta tipici della Calabria e della Sicilia. Si diffuse l’abitudine di tagliare le sfoglie di pasta a striscioline sottili, creando questi nuovi formati.
Dalla Magna Grecia la cultura della pasta dilagò in tutto il meridione, raggiunse Roma e poi tutta la penisola italica facendo riecheggiare le parole di Feuerbach “Siamo quello che mangiamo”.
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