di FRANCO CIMINO
E mo’, Adriana? Vorrei scriverti una poesia che inizi con un fiore. Uno qualsiasi dei tanti che tu amavi e dei quali ti ornavi la testa e gli abiti, i capelli. E le mani riempivi, quando a piccoli fasci li portavi a chiunque li “meritasse”. Per il piacere di averli, per la delicatezza del proprio animo. Per la bellezza che avrebbe avuto. Negli occhi. Come la gentilezza nel cuore. Tutte emozioni e qualità che costituivano la tua essenza umana. La tua natura di Donna. La tua bontà di Persona. Il tuo primo abito sulla tua pelle, che vestivi, come una modella alla sfilata lungo i prati fioriti, della tua fantasia, della tua immaginazione onirica. Della tua effervescente, delicata, originale personalità. Gli abiti della Primavera, creavi e indossavi. Tutti ricchi dei colori della Primavera. E della sua luce. Che si fondeva con quella dei tuoi sguardi.
Dei tuoi sorrisi. Ché tu insegnavi, anche fisicamente, che senza colori e senza luce cangiante su di essi, non c’è Primavera. Nella Natura. E nella Persona. Tu, infatti, sei Primavera. Quella bella, che non salta le precedenti stagioni, ma le carezze. Le vive. Le respira. Per sentire meglio il profumo della stagione nuova. La luce del tempo nuovo. Non sei mai stata, tu, né inverno, né autunno. Ma non li hai saltati mai. Non li hai maltrattati mai. Negati, odiati. Disprezzati mai. E non solo perché tu non hai mai disprezzato, rinnegato, odiato alcuno. O qualcosa. E quei qualcuno e quelle specifiche cose. Delle persone. Della natura. Della vita. Anche quando quegli autunni e quegli inverni, i tuoi, sono stati duri, cattivi, impietosi. Vigliacchi. Non hai odiato quelle stagioni esistenziali. Il male che da lì è venuto. Non hai odiato le persone che te l’hanno inflitto. Anzi. Hai preso sempre da tutto la Bellezza, che si nasconde in ogni situazione, cosa, realtà, appassionata, come sei sempre stata, dalla Vita. E Vita, quale primaria prova dell’esistenza della Bellezza. Ed, insieme, quella dell’esistenza di Dio. E che Vita hai difeso! Voluto. Amato. Portata con orgoglio alla sensibilità di un mondo che sempre più sta smarrendo il senso della Vita. Il suo valore salvifico. Il giardino multicolore della Felicità. Anche quando la Vita, una sola vita, apparentemente costerebbe fatica e rinunce. O per altri un “ appesantimento” evitabile.
E quante vite ci hai fatto conoscere! Quante ne hai salvate con la tua sensibilità! Con la tua immensa generosità, che ti portava a correre là dov’è quelle vite, una sola vita anche, veniva maltratta. Nelle donne maltrattate. Violata nelle innumerevoli forme di violenza, che, dalle case tugurio dell’esistenza miserabile, ai campi delle mille guerre dei mille diversi conflitti, si abbattono su uomini e donne inermi. Innocenti di tutta l’innocenza della Vita. Quante ne hai salvate con i tuoi racconti tanto brevi e semplici quanto intendi di poesia! La Poesia che hai sempre avuto nel cuore. Negli occhi. Nella parola. Come quella che ha carezzato pure un albero di un campo abbandonato di un piccolo paese a due passi da qui. E del quale riparleremo parlando di te. Quando ti ricorderemo. In quell’Albero millenario, dove gli altri non hanno visto neppure la grande fortuna di poterlo concepire come potenziale ricchezza economica, tu vi hai trovato la Vita. Quella della Natura e della storia degli uomini che racconta. La Natura, che resiste al tempo e si conserva se gli uomini non la bruceranno. E non l’abbatteranno per farvi ancora scheletri di ferro e cemento. Quella Vita dell’Albero tra i più vecchi del mondo, tu hai carezzato. Le hai parlato. E le sue parole e i suoi sentimenti, ci hai portato con le tue parole e quel bellissimo libro, che dovremo portare con noi, come Vademecun dell’Amore. Adesso sto venendo da te nel luogo dove hai combattuto la tua lunga battaglia per restare qui. Concludendola quando il Signore con cui hai parlato in questo lungo cammino, ti ha detto basta. “Adriana non stancarti più, smetti di soffrire. Vieni là dove ti stavamo aspettando. E non da quest’ultima tua battaglia.
Volevi restare ancora per difendere i tuoi Andrea e Carlotta. Eh, i tuoi figli due gioielli, che in maniera diversa profondamente ti rassomigliano. Andrea che mai smesso di chiederti di restare la sua mamma. Anche da lontano in ultimo. E Carlotta “spiccicata a tia”, come diresti anche tu in quel dialetto che tiravi fuori quando ti arrabbiavi un po’ o quando volevi ironizzare per sdrammatizzare le cose un po’ difficili e complesse. E quando gioivi. Eh, Carlotta, la meravigliosa creatura che ti è stata figlia sempre e mamma in questi sessanta giorni di sofferenza, ogni giorno partorendoti dal suo cuore. Verrei prenderti in braccio e portarti, adesso, al Teatro, il tuo Politeama, che da oggi spero abbia per te, come tra cent’anni per un’altra magnifica donna di Teatro, un angolino, proprio piccolo piccolo, da dedicarti. Un angolo bello, affinché la tua memoria resti alla Città come invito a vivere il Teatro e a trarre da esso elementi essenziali per la ricerca della bellezza. Non ti dimenticherò, Adriana. Non ti dimenticheremo. Adesso riposa.
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