di FRANCO CIMINO
Io lo so, da quando la paura incominciava a farsi ipotesi e, poi, via via fatto, lo so. Abito lì vicino, il Supermagazzino si trova sul Corso, a trenta metri dal Teatro Comunale, ambedue al centro del Centro Storico. Nulla di più strategico lungo l’asse urbano “ storicamente” più commerciale. Lo so perché in quel luogo ci entro, spendendo, non di rado da quando vivo stabilmente in questa parte bellissima della Città. Mi bastava vedere gli occhi del signor Paolo, il mio commesso in assoluto preferito, sempre magro ed elegante, nell’abito e nella persona, per capire che una storia stava “ chiudendo”.
La storia di un esercizio commerciale che ha servito Catanzaro e il suo circondario, in quel bel trentennio di crescita e di sviluppo, in cui lungo il Corso commerciavano negozi per ogni tipo di utenza, per ogni esigenza, per ogni categoria sociale, per ogni tasca, e gusto e moda.
I più anziani, gli adulti in quei ragazzi di allora, i molto vecchi, se lo ricorderanno bene, si iniziava con l’Upim, che vendeva di tutto per tutti. Anche per le classi meno abbienti. Di più per i poveri, che anche allora c’erano sebbene non nella quantità enorme di oggi. Scendendo, proprio a metà del bel serpente di vita cittadina, c’era Lisitano con i tre negozi di diversa qualità. E poi Mazzocca per i ricchi della provincia. Scendendo ancora, sull’altro lato, i negozi, pure questi eleganti, di Marino. Altri ancora che non ricordo.
Di fronte il Comunale, anche bar “ salottiero”, che si apriva con la porta a vetro interna sulla biglietteria del cine-teatro, si mostravano orgogliosi e forti il negozio di Squillacioti e, accanto, quello di scarpe del noto Spadafora. In Galleria Mancuso le profumerie importanti e lo storico Papavero Blu, per fortuna ancora resistente, per l’eleganza classica maschile e femminile. Prima delle scale, all’inizio che dà su via San Nicola, Ribot, il piccolo negozio di un giovane brillante, bello ed elegante di suo, Guido Rossi, come gli abiti di gran firma, che vendeva a una clientela di nicchia.
Fu lui a portare qui gli abiti di Brioni, che io avrei facilmente confuso con una marca di brioche. Potrei continuare, ma dovrei sforzare, a danno della scrittura, la memoria. Torno, quindi a Bertucci. Si sentiva nell’aria che avrebbe chiuso i battenti. All’imprenditoria di questo storico logo e dallo spirito straordinario, presente ancora attraverso le inevitabili successioni ed eredità familiari imposte dal passare del tempo, nulla si potrebbe contestare per la decisione ormai assunta. La filosofia, che ne contiene la ferrea logica, dice sempre la stessa cosa. “ Siamo in un sistema democratico, guidato dalla cultura liberale, per cui alla libertà di ogni iniziativa si aggiunge quella ancora più rigida dell’imprenditore.” E continua:” l’imprenditore che opera in un’economia liberale, è guidato dalla filosofia d’impresa e, questa, dalla logica del profitto. “ Poi, le conclusioni come una massima evangelica o un imperio del dovere. Queste:” Se in una qualsiasi attività economica, diciamo, non v’è profitto, quando non addirittura perdite, è dovere, quasi etico, di chiudere i battenti. Cambiare o andare. In alcuni casi anche fuggire.”
Questa logica, vieppiù preponderante, oserei dire prepotente, nella drammatica attualità derivante dalla crisi economica più pesante, io credo, degli ultimi cinquant’anni, e della quale a soffrirne di più sono i territori e le persone già povere, Catanzaro in cima alla lista, si impone con decisioni inappellabili apparentemente. È quella che gli studiosi più attenti della società definirebbe di contrasto alla Democrazia. La conferma cioè che quando l’economia non è guidata dalla Politica, la cultura liberale, trasformatasi violentemente in nudità liberista, non coincide con la Democrazia. E la logica del mercato con i principi fondamentali della Carta Costituzionale. E, ancora, potendo continuare senza limiti di narrazione, il consumatore con la Persona, i clienti con le famiglie. I commercianti e i compratori, i venditori e gli “ spenditori”( mi si lasci passare il termine) con la Città. Infatti, un’attività che chiude è un danno all’intera Città. Più grande è quell’attività, più grande è il danno. Più importante la storia che l’accompagna, più grave la lesione alla storia della Comunità. Un’impresa che chiude significa lavoratori che resteranno a casa, della cui enorme conseguenza è inutile dire, essendo non soltanto economica. Un’impresa che chiude significa indebolimento di quel circuito virtuoso che genera ricchezza nel luogo e nel luogo rimane. Chi lavora guadagna e consuma. Il consumo fa girare il denaro e accresce stabilità economica e serenità sociale. Elementi questi, che reimpiegati con il denaro e i prodotti, fanno crescere l’economia e la ricchezza. Quella buona, che, sia pure in modo non giusto, è redistribuita sull’intero corpo sociale. La chiusura di un’attività commerciale significa anche spegnimento delle luci sulla vita. Un fatto che genera tristezza nei cittadini e insicurezza urbana, oltre che indebolimento del grado di bellezza della Città e delle persone. Ché tutto ha bisogno della luce, di cui la natura è prevalentemente composta, insieme al suo gemello, l’acqua.
Bertucci chiude, e ne ha diritto, diciamo. Bertucci chiude con la disinvoltura che non avrebbe in quel di Lamezia, perché non è di Catanzaro e a Catanzaro non ci abita. Non vive. E io, ripetendomi, dico che chi conosce un luogo e lo vive, poi lo ama e lo difende. Ma è un discorso che evito di fare oggi, in cui prevale la “ logica” che non ha anima. Delle cose e delle persone. L’unico discorso che andrebbe fatto è quello politico. E andrebbe fatto in quella visione della Politica che purtroppo manca. Almeno nella considerazione, la mia, che la Politica possa fare quasi tutto. E mai si dovrebbe fermare dinnanzi alle scuse del cavolo che sempre i suoi operatori trovano. Del tipo “ non ci sono risorse; è colpa di chi c’era prima; a me non hanno detto niente; si, però, la squadra di pallone; faremo domani; ho chiesto soldi ma il Governo, l’Europa…; e la guerra, non vedete che c’è la guerra…” Oggi, la risposta dinnanzi alla chiusura di Bertucci è(la scrivo testualmente):” il privato è libero di decidere. E noi non possiamo impedirglielo, ché ci porterebbe pure in tribunale.” Vero, sul piano tecnicamente giuridico e tecnico, ma la Politica ha la forza di concepire utilmente l’iniziativa privata quale fatto pubblico, persuadendo tutti che Democrazia è il luogo in cui non solo la libertà è pienamente garantita ed esaltata. Ma quello in cui ogni atto publico è privato, quando si rivolge al bene dei singoli, e ogni atto privato è pubblico quando attiene al bene comune. Ma anche qui non vado a ragionare oltre, lo spazio del dialogo con i lettori non lo consente.
Pertanto, le istituzioni, quelle più prossime al cittadino, che ancora una volta arrivano in ritardo sul problema, si attivino oggi per favorire, non avendo potuto garantire la permanenza di questa attività storica, la difesa del posto di lavoro di quanti tra i dipendenti Bertucci non possono andare in quiescenza, e la più rapida apertura di un’attività( io ci avrei visto un super negozio di grandi marche o delle stesse l’outlet) che non modifichi il volto commerciale del Capoluogo.
E, soprattutto, non sia in competizione insostenibile con i cento negozi che dovranno essere difesi dall’assalto della crisi e delle potenti realtà commerciali. Questo deve fare la Politica e l’Amministrazione Comunale. Altrimenti, ci troveremo dinanzi alle contraddizioni delle parole e al loro significato, qui, ambiguo. Due, in particolare. Questa, nel mentre ci attardiamo ancora a decidere sulla chiusura del Corso i negozi sul Corso chiuderanno. Una contraddizione simile a quella della propagandata “Notte Piccante”, che nuovamente viene presentata con quell’immagine femminile distorcente. Davvero brutta, per non usare un termine molto esteso. La Notte che celebra la grandezza del nostro piatto tipico e storico mentre le originali putiche d’o morzedru, continuano, ormai da anni, a chiudere.
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