di FRANCO CIMINO
È dolore quello che sento oggi. Dolore vero. Per nulla esso è in soggezione dinanzi ai drammi che vedono cadere, nella assurda violenza di ogni guerra quotidiana, vite giovani. Vite interrotte e per le quali a ogni ora, impotente e colpevole, mi dispero. Mio padre diceva una verità tra le tante tratte dai detti antichi, la filosofia “profetica” dei poveri e dei disarmati di libri e scuole. È questa:” cu pocu ava, assai tena”. Per un democristiano autentico, quale io sono, che, sin dai suoi quattordici anni di fanciullo ancora, ha speso gran parte della sua vita per la Politica e sempre per gli ideali in cui ha creduto, Arnaldo Forlani è una ricchezza. La sua morte un dolore, conseguente. Dio mi perdonerà di dirlo. Non è un dolore esistenziale, naturalmente. Non segnerà una mancanza tormentosa. Assolutamente no. È, invece, un dolore di natura politica, antropologico, mi si lasci passare il termine. Un dolore di consumato confine. Del passaggio verso una fine. Di chiusura, cioè, di un qualcosa che ti appartiene, per aver mantenuto in vita un qualcosa che ha avuto a che fare con la tua vita personale. Il confine, che separa un tempo vivente da quello della storia, se la storia vorrà mantenerlo fermo. La morte di Fornani, è per me soprattutto questo. La settima scorsa Guido Bodrato, un anno fa Ciriaco De Mita, sette mesi fa Nicola Signorello, tre anni prima Dario Antoniozzi. E, nella mia Catanzaro, diciotto mesi fa la scomparsa di Carmelo Pujia, a marzo scorso quella di Cataldino Liotti. Altri democristiani, di minore fama, ovvero altri che adesso non ricordo, sono andati via. Per loro fortuna molto avanti nell’età, rispetto a quanti la morte li ha presi nel pieno della loro freschezza. Non li elenco per evitarmi ricordi struggenti. Paradossalmente, è proprio il loro andare da vecchi che non mi risparmia tristezza e dolore. Sentimenti questi, che mischiati insieme producono immediatamente quello della nostalgia. E, ahimè, qualche rimpianto. Finita la DC, per mano sua stessa e di quei pochi suoi notabili, che hanno contribuito a farla finire, soprattutto( tengo a ribadirlo al di là della facile letteratura intorno al complotto), io ad essa sono rimasto attaccato. Come una conchiglia o una cozza allo scoglio. Non mi sono trasferito mai altrove e nessun partito, che non tentasse, con i democristiani dentro, di rassomigliarle, mi ha visto aderirvi, sia pure nel breve tempo di quelle mie ultime adesioni. La sua fine l’ho vissuta come un lutto, non conoscendo allora la pesantezza terribile di quello umano. Il PPI, di Martinazzoli, sulla cui denominazione voluta per cancellare il simbolo e il nome DC, non fui d’accordo( la mia proposta era Democrazia Cristiana sezione del Partito Popolare Europeo), fu la speranza di vederla ritornare. Speranza, cui diedi io stesso corpo, nel lontano duemilacinque, da Catanzaro, attraverso l’iniziativa per una sua rinascita. Ricordo anche il titolo che diedi a quella iniziativa:” C’è un’anima democristiana nel Paese, falla rivivere tu.” Molti rinunciarono a darsi da fare, convinti che in politica se si muore è per sempre. Poveretti, non capirono che la DC non era per nulla defunta. Intanto, perché vivevano le sue idee, che tutti, da destra a sinistra, da trent’anni in qua, hanno cercato, clownisticamente, di imitare. E, poi, perché, per quanto confusi e frustrati, quattordici milioni di democristiani, tra votanti, militanti, iscritti e dirigenti di base, non si sarebbero potuti volatilizzare in un giorno, pur considerando l’antica legge italica del trasformismo. Altri, pochi ma importanti, almeno nella responsabilità di aver contribuito alla crisi del Partito, hanno deciso, per il proprio tornaconto personale, di seguire, in forma variamente diversificata, il nuovo “ andazzo” e i nuovi capetti della politica. Quella politica, piccola piccola, personalistica e propagandistica, fatta passare come rivoluzionaria mentre altro non era che il cinico e ridicolo camuffamento delle vecchie comparse di un vecchio nascosto potere. Potere, oggi, nuovamente imperante, dall’alto dell’Europa a scendere, attraverso altre forme e soggetti diversi. Arnaldo Forlani, rimase fermo dov’era. Con la sua fede incrollabile nella Democrazia Cristiana, oltre a quella religiosa che è sempre fatto assai privato. La sua fedeltà era alla storia che la DC rappresentava, anche quale elemento non marginale di quella del Paese. Una storia, quale movimento politico, che ha camminato, per quasi(o forse indirettamente sì) tutto il novecento, il secolo delle grandi tragedie e delle grandi scelte. Il secolo della morte che inneggia alla vita, come della guerra che cerca la Pace. Il secolo delle ricostruzioni che rovinano su tutto e della povertà che crea la ricchezza. Il secolo della decadenza dei valori che dà forma a valori nuovi perché eterni. Il secolo che si promette l’Europa dalle follie dei nazionalismi, e l’Europa fonda. Il secolo delle parole nuove per noi. Parole di ferro, d’oro e diamanti, di Vangelo e di pensiero illuminato, che ci giungono con la Costituzione. Il secolo quindi della Democrazia, come luogo in cui Libertà, che precede Diritto e Politica, istituzioni e società, viene riconosciuta è tutelata. Soprattutto, nella Persona, soggetto centrale della Costituzione e riferimento costante di ogni agire umano, specialmente politico. Arnaldo Forlani fu parte di questa storia. Personalmente di lui ricordo la telefonata che mi fece, nella mia casa di Taverna, un mattino presto, per scusarsi di non poter partecipare a quell’assemblea e ad esortarmi a non demordere nell’intento. Mi diede pure dei consigli, che, purtroppo, non seguii. Arnaldo Forlani, al cui nome possiamo premettere i tanti titoli conseguiti nella sua lunga esperienza politica( presidente, segretario, ministro, onorevole…) fu soprattutto democristiano. Autentico, coerente. Coraggioso e fermo. Mi verrebbe da dire fu soltanto democristiano, se non potessi aggiungere, come faccio, una sua caratteristica ancora più peculiare, essere uomo delle istituzioni. In alcune cariche, come quella di presidente del Consiglio, rimase un tempo brevissimo. Da ciascuna, oltre che da quella, se ne andò con una compostezza da lasciare allibiti. Specialmente oggi, in cui dal governo, fosse anche un posticino di sottosegretario, non ci si muove neppure con le cannonate. Forlani lasciava, a volte volutamente, senza polemizzare. Al contrario, favorendo, con le sue rinunce soluzioni migliori, le più utili al Paese. Era democristiano autentico, animato solo dallo spirito di servizio. E da quell’idea, che cercò di diffondere tra i giovani, che la Politica fosse un servizio alla gente tutta e che di essa, come delle istituzioni, non ci si serve. Era uomo dello Stato e per lo Stato, l’istituzione più alta, in cui hanno sede non soltanto il sentimento per la Patria e i suoi valori, ma anche quello di una visione profonda di una entità alta che oltrepassi sé stessa per porsi al servizio dell’Europa prima e del mondo dopo. Per costruire la Pace e l’eguaglianza nella libertà. Di tutti, popoli e persone, società e nazioni. Terra e territori. Forlani poté essere così perché era leader. Di costituzione personale, lo era. A quei principi si formò sotto la guida illuminata di uno dei più grandi uomini del secolo scorso. Una personalità di cui ancora si parla poco, io credo, per due motivi. Il primo, per soggezione verso la sua cultura profonda e la sua altezza politica inversamente proporzionale a quella fisica. Il secondo, per quel senso di colpa collettivo, che ancora si trascina, a causa del giudizio negativo che fu dato alla persona e alla sua storia politica. Sto parlando di Amintore Fanfani, evidentemente, il maestro di Arnaldo. Questi lo abbandonò, facendosi Fanfani stesso abbandonare, non per tradimento o altro di più misero, ma perché la sua dimensione politica era diventata troppo grande e il suo pensiero troppo libero e autonomo da quello del “ padre”. Forlani fu democristiano e basta. In quanto tale sfugge a qualsiasi etichettatura gli si voglia ancora attribuire. Era anticomunista? No. Era filo socialista? No. Era di destra? Assolutamente no. Allora, visto alcuni fatti, era craxiano? Corbellerie! Allora, era moderato, per dirla con un termine che va assai di moda? Se lui potesse rispondere adesso, ripeterebbe con espressioni nuove e con la solita ironia, che le parole stanno sempre più trovando il senso della convenienza di chi le pronuncia. Egli fu, lo ripeto, solo democristiano. In quella cultura politica, unificante tutte le posizione storicamente espresse da tanti leader, si trovano e le ragione del suo fare politica e la sua azione politica con quel risvolto di pragmatismo che si appartiene ai leader che hanno senso delle istituzioni e responsabilità di governo della cosa. Si potrebbero richiamare tanti passaggi dei suoi scritti e discorsi, ma per rendere meglio il suo pensiero basti una sua frase. Quella offerta, come risposta a una domanda “ televisiva” di Minoli. È questa:” la Politica è la costante ricerca del componimento delle posizioni diverse.” Non era questo il pensiero di De Gasperi e di Sturzo? Non era la stessa idea che avevano Fanfani e Andreotti, Donat Cattin e Zaccagnini? La cultura del dialogo, non fu il metodo-sostanza che guidò le fatiche di Aldo Moro? La domanda che resta è probabilmente quella riguardante la strategia, che tra quei grandi potrebbe essere diversa. “Dove si indirizza quella cultura e quell’idea del confronto? “ Questa la domanda. È semplice rispondere. Si indirizza verso la realizzazione dei principi costituzionali. Il principale: la costruzione della Democrazia piena, in cui libertà, partecipazione, eguaglianza, diventino i fondamenti del vero interesse del Paese. E del bene della Persona, quale condizione del bene per tutti. Nessuno escluso. Ve l’ho detto. Forlani era un democristiano. Soltanto un democristiano. E ciò che si potrebbe aggiungere, quale giudizio sull’uomo, come l’essere stato un uomo perbene, gentile, simpatico, colto, elegante, raffinato, bello, affabile e onesto, è puramente confermativo. Di altro cosa posso dire ancora? Ah, che rimpiango quella posizione che ci vide nello stesso tempo e per lo stesso tempo e fino all’ultimo tempo, “colleghi”. Sì, lo fummo, e anche dialogicamente impegnati in quella sorta di “ parità” che lui “ concedeva”, quando fra il millenovecentottantanove e il millenovecentonovantadue, fummo insieme “ segretario del partito”. Io dell’antica vasta provincia di Catanzaro, lui nazionale, ovvero politico, come usava allora. Ci intendevamo bene, noi due. Specialmente, durante i comizi che facemmo insieme in campagna elettorale. In quelle occasioni mi offriva anche di parlare quanto io avessi inteso fare. “ Sei tu, qui, il segretario- mi diceva- è bene che la gente ascolti te.” La nostalgia si fa rimpianto per quel che avremmo potuto essere e non siamo stati. Ah, il mio dolore, sì. È che con lui che se ne va, il mio sogno di rivedere la DC si è infranto.
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