Franco Cimino: "Dante e la Divina Commedia nell'opera in vernacolo di Salvatore Macrì"

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images Franco Cimino: "Dante e la Divina Commedia nell'opera in vernacolo di Salvatore Macrì"

  23 ottobre 2023 22:32

di FRANCO CIMINO

“Chi bella chi sì, e chiù bella chi fusti stasera, on mi stanchera mai ma ti sentu. Stacera cà finu a domana!” Mi veniva di urlare questo nella sala del Piccolo del Politeama, dopo aver ascoltato, incantato, i quarantacinque minuti della relazione-spettacolo, teatro-lezione, svolta nel tardo pomeriggio dalla dirigente emerita( si è dato lei questa denominazione) ma prof per sempre, Marcella Crudo, elegantemente introdotta dalla brava Aurora Martorano, docente di lettere del Liceo Siciliani. Marcella, in congedo dalla scuola da qualche anno, scrittrice di teatro e poetessa nella nostra lingua catanzarese, oltre che cultrice delle tradizioni locali, è stata superlativa nel parlare di un’opera straordinaria costata trentacinque anni di studio e lavoro al suo autore. Si tratta della Divina Commedia in vernacolo, redatta da un altro grande intellettuale e studioso, oltre che poeta, calabrese, Salvatore Macrì, medico dentista, purtroppo scomparso molti anni fa, poco prima di chiudere la sua opera. Opera, poi, completata dalla sua donna tanto amata, la moglie Rosa Cardamone, a cui va il merito, davvero grande, di aver consegnato alla Calabria, e da oggi alle scuole superiori di Catanzaro, i tre volumi di questa preziosa Divina Commedia. Ad ascoltarla, ammirati, tanti ragazzi e tanta bella gente della nostra Città, che quando viene chiamata a cose importanti, risponde con le sue persone più attente, donne e uomini curiosi di sapere ancora. Tra queste, due “ presidi” che si sono alternati nella direzione del Liceo più importante della Calabria, insieme al Campanella di Cosenza, il Classico Galluppi, sempre affascinante nella sua antichità prestigiosa. Elena De Filippis e Rosetta Falbo, occhi e mente incollati su di lei, Marcella. Che ci ha portati, con l’aiuto della giovane attrice Teresa Barbagallo, che ha letto, e bene, alcune terzine, con forza e dolcezza da un’opera all’altra e, con il rispetto delle differenze, da Macrì a Dante. Non riferirò molto della relazione. E perché assai nutrita ci cultura profonda, che danneggerei non sapendola sintetizzare, e perché ne scriverei a fiumi

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  E perché assai nutrita ci cultura profonda, che danneggerei non sapendola sintetizzare, e perché ne scriverei a fiumi. E perché, il mio interesse più grande, Marcella Crudo, con le due Divina sotto il braccio, deve andare nelle scuole, non solo i licei e non solo quelle superiori, per ripetere la lezione odierna. Qui mi piace dire le quattro cose che vanno affermate. La prima, il modo dotto in cui ha saputo valorizzare il vernacolo come lingua del popolo. La lingua dei nonni, io dico, più che dei padri. Pertanto, non secondaria e non inferiore, a quella che è considerata la lingua madre. Lo confermano i richiami ai grandi filosofi e poeti da Benedetto Croce a Pascoli, che della lingua del popolo hanno saputo rappresentare l’alta capacità poetica e l’immediatezza espressiva anche della complessità concettuale ed emozionale, sia attraverso la spontaneità, sia attraverso la strutturazione del testo. La seconda, la capacità di Macrì, reggino di nascita, cosentino di adozione, catanzarese per amore e per il lungo vissuto locale, di parlare un vernacolo in qualche modo nuovo. Un dialetto che non esiste ancora e mai potrebbe esistere per il legame indissolubile e immodificabile tra la parlata e il territorio, una radice nell’altro. Macrì, per lo studio attento che ne ha fatto la relatrice, vi è riuscito, invece. E pienamente. Il suo vernacolo non è reggino, né cosentino, né catanzarese. È, a suo modo, calabrese, avendo l’autore saputo ben impiegare nella “traduzione”( meglio dire nel trasferimento) le parole e, addirittura, le frasi più significative e più espressive delle tre lingue locali. Operazione riuscita appieno, e lo si vede nella lettura del testo. Di più, lo si sente ascoltandolo, per l’armonia che produce il suono di quelle terzine “ calabresi”. La terza, Salvatore Macrì, si è avventurato in questa impresa “ impossibile”, per amore di Dante, di cui era sicuramente un conoscitore profondo. Ma anche per l’accesa passione che l’aveva avvinghiato quando la sua mente di intellettuale robusto si è messa a camminare lungo la poesia e la filosofia del Sommo Poeta e nell’Amore Assoluto, che tutto crea e tutto muove.

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La quarta, Macrì è entrato in Dante per la poesia che era dentro di lui, la poesia che batteva in quel petto divenuto da tempo fragile. Macrì, il dottore, poeta semplice e “ spontaneo”. Va bene così. Il resto sarà meglio che lo scoprano quanti si accosteranno all’opera in vernacolo, di certo dopo aver conosciuto un bel po’ della Divina Commedia. Non ci si arriva a Macrì completamente disarmati della grandezza dantesca. Questa sera è stata una bellissima sera di sentimenti e di cultura. Il merito va assegnato decisamente a due donne straordinarie, in sentimenti e cultura, che questo evento hanno voluto promuovere. Due signore di grande classe e finezza ed eleganza. Una è Teresa Rizzo, combattiva e tenace, competente e generosa, presidente della Società Dante Alighieri, per la quale ha voluto celebrare la settimana della lingua italiana nel mondo con un’opera in vernacolo. Il dialetto, Dante a prescindere, calabrese per onorare la lingua della patria. La lingua più amata nel mondo, per merito proprio di Dante. L’altra donna, è l’umile regina di questa “ festa”, regina timida e schiva, tanto riservata che se avesse potuto si sarebbe nascosta tra i fogli dei libri. Regina per amore e dell’Amore. E regina del dolore per l’Amore strappato dal petto. E quello dal ventre. È Rosetta Cardamone, moglie amata e innamorata della persona che ci ha convocato lì, il poeta- scrittore e pensatore calabrese, Salvatore Macrì. Io, commosso, uscendo dalla sala, l’ho rivisto anche negli occhi di pianto trattenuto del figlio Francesco.

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