di FRANCO CIMINO
In un’Italia che vede assottigliarsi anno dopo anno, da almeno vent’anni, lo spazio della sua democrazia, il votare troppo spesso rischia di non far bene alla Democrazia. Per carità, non chiamatemi in contraddizione, per il fatto che io, da sempre cultore, addirittura più che sostenitore della “Costituzione più bella del mondo”, che ha proprio nella libera e molteplice consultazione elettorale uno dei suoi cardini più sicuri, sottolinei quasi negativamente questo aspetto. Evidentemente, non potrà essere colpa dei meccanismi democratici, se mai lo è del livello culturale e morale raggiunto dalla politica italiana, per l’uso che del voto se ne fa e della sua strumentalizzazione ingannevole. Partiti inesistenti in quanto tali, che si muovono continuamente come comitati elettorali, che non parlano al Paese se non per slogan e frasi stereotipate ripetute a mo’ di filastrocca, con capi che ne rappresentano per intero la loro specificità se non addirittura la stessa unica ragione di esistenza( sono venticinque anni che quasi tutte le formazioni politiche recano nel logo il nome del capo- proprietario del partito), usano le elezioni non per accrescere il proprio spazio anche di potere, ma come chiave d’accesso in quella stanza di fumo in cui possono mantenere in vita i loro comandanti con le proprie ristrette servizievoli corti. Usano le elezioni in un modo che consenta che nessuno dei contendenti perda mai.
Si prenda l’ultima consultazione elettorale, dalla primavera scorsa rinviata a causa del Covid. La Costituzione più bella del mondo (lo ripeterò fino a stancarmi, ma non mi stancherò), con le leggi dai quei principi discendenti, non consente l’abbinamento delle elezioni politiche con il referendum. Di questo non si parla mai. Perché ne obbliga- non ne fa consiglio- non solo la separazione, ma anche il distanziamento? Anche di questo non si parla mai. Anche i più rigorosi costituzionalisti si sono autocensurati nel timore di non essere compresi e “ accettati” dai media. C’è una ragione ben precisa, in quella sorta di dettame costituzionale. Una sola delle tante che pure si potrebbero considerare. Ed è che nella nostra idea di democrazia la chiamata diretta, pertanto straordinaria e non facile da attivare, dei cittadini per l’assunzione diretta e immediata di una decisione su temi tanto delicati quanto importanti, ha un valore democratico arricchente. Un’altra delle tante magie compiute dalla Costituzione in nome del popolo e del cittadino, della comunità nazionale e della persona. Quella, cioè, di coniugare il fermo principio della democrazia rappresentativa, basata sulla delega e sulla “parlamentarità”, libera e “condizionata”, con la democrazia “ diretta” e della partecipazione finalizzata. È attraverso l’istituto del Referendum, e per il rigore con cui lo abbiamo concepito, che questa magia si realizza. Ed è per questo che la nostra democrazia lo vuole muoversi da solo. Il quesito referendario e il cittadino di fronte, l’uno negli occhi dell’altro, per una libera valutazione e conseguente libera determinazione degli elettori, senza che altro li disturbi o li condizioni. Come fossero due amici che si parlano per operare meglio insieme. O due familiari chiamati a decidere per il bene della famiglia.
La distinzione, fortemente voluta, dei temi referendari da quelli strettamente politici-partitici, è data dalla necessità democratica di liberare i primi dalla forza incontrollabile, in campagna elettorale, dei secondi, in maniera che non ne subiscano gli inevitabili tentativi di strumentalizzazione, con ciò indebolendo il significato stesso e della consultazione referendaria e il risultato conseguente. A disprezzo di questo principio democratico anche questa volta il Referendum è stato abbinato ad altro. Partiti e governo hanno potuto farlo rifugiandosi furbescamente nella scappatoia che di elezioni amministrative si trattasse e non delle politiche. Questione non solo di lana caprina, ma di sottile “ imbroglio” a scapito della pretesa ingenuità( stanchezza e ignoranza, direi)popolare. Il concetto che accompagna quel principio è lo stesso. L’insieme delle componenti politiche avrebbe dovuto, pertanto, se non posto nelle condizioni segnalate in premessa, rispettarlo. Invece, gli italiani sono stati chiamai ad esprimersi nella stessa occasione su due questione completamente diverse. È evidente che questa scelta sia stata fatta per garantirsi, ciascun partito, un risultato che in qualsiasi forma equilibrasse le loro letture della vittoria e della sconfitta, possibilmente compensandole.
I commentatori politici, che a suon di migliaia di euro si sono distribuiti nella decina di salotti televisivi, hanno tentato in mille modi, litigando più che gli stessi politici e recitando le filastrocche afasiche di pensiero, di mischiare i due fatti parteggiando per una o per l’altra tra fazione. Del referendum, nulla, se non per dirne secondo interesse politico. Proviamo noi a farne una lettura più corretta, forzatamente separandoli. Il Referendum, checchè ne dicano i partiti, quasi tutti, che a parole l’hanno sostenuto e la cui legge hanno più volte votato in Parlamento, l’hanno vinto i Cinque Stelle nella loro resistente versione del primo grillismo. Quella del “vaffa” e dei politici tutti ladri e fannulloni, che consumano ingenti risorse per mantenere privilegi e ruberie, politici che, quanti più ne manderemo a casa meglio é per gli italiani e per le loro tasche. Conoscendo la loro ormai endemica debolezza e la loro progressiva perdita di fiducia degli elettori e non essendo riusciti per la conflittualità che al loro interno regna sovrana, realizzare le alleanze elettorali con il PD, i pentastellati “di governo” hanno scelto di impegnarsi propagandisticamente esclusivamente sul Referendum, lasciando alle periferie la “follia” di ballare da sola una musica che nessuno ascolta più.
Di Maio e compagni, che si stanno giocando tutto del loro futuro personale, hanno puntato sul taglio del numero dei parlamentari perché era una partita già vinta. Una campagna elettorale, da cui sono rimasti fuori i temi referendari con tutta la loro delicatezza, era inevitabile che, abbandonata agli umori della gente, desse un risultato come quello appena registrato. I sostenitori dei No, tra l’altro, che hanno compiuto errori e consumato ritardi ed utilizzato un linguaggio inadeguato, hanno dato un buon contributo alla valanga di Sì. Restiamo ancora sul Referendum, per dire che se avesse vinto davvero, come sembra, “la pancia” del Paese, e il rancore degli italiani nei confronti di questa politica e dei suoi attori, tutti di terza fila, questa vittoria, che nominalmente si possono intestare in tanti, e segnatamente i Cinque Stelle, segna, in verità, la sconfitta di tutti. I partiti dell’attuale maggiorana come quelli di opposizione, centrodestra e centrosinistra, hanno perso tutti. E perderanno di più domani, quando nessuno di questi potrà o saprà mantenere gli impegni che, sulla scia del quesito referendario, hanno assunto in ordine al taglio degli stipendi e dei privilegi o quello, della nuova legge elettorale, dei regolamenti parlamentari. E, assai più importante, l’impegno di condurre questa ultima legislatura in un porto sicuro a prescindere del suo tempo ordinario. Io ho votato e sostenuto il No, motivando questa scelta con argomenti che non perdono peso di un solo grammo difronte a un risultato che pure doverosamente rispetto.
Ne sono anzi più convinto oggi, proprio per il modo in cui questo Sì è venuto affermandosi, ma del quale tuttavia dirò in altra più prossima occasione. Vigilare per non disperdere nella rassegnazione e nella pigrizia le profonde ragioni che hanno contrastato con quelle scarne del Sì, ovvero per tentare di metterle tutte insieme in un proficuo progetto di riforma istituzionale, è dovere di chi voglia ancora preoccuparsi della Democrazia prima di ogni altra pur necessaria urgente questione. Se sul Referendum non ha vinto nessuno, maggiormente nessuna vittoria è riscontrabile sul fronte delle regionali. E non solo perché i ragionieri della politica registrano un tre a tre di regioni conquistate dall’uno e dall’altro fronte, che farebbe pensare a un buon pareggio per tutti. Ovvero, perché, dove un partito perde consensi altri pochi ne guadagna altrove, tranne il caso di Fratelli d’Italia che parrebbe mantenere un trend costante. Perdono tutti perché la vittoria alle regionale è quasi esclusivamente appannaggio dei candidati alla presidenza. Specialmente, se uscenti. Lo dicono i numeri. In particolare, quelli riferibili alle liste dei presidenti( sono loro che, tra l’altro, hanno gestito direttamente tutte le fasi elettorali, alleanze e aggregazioni di forze civiche e politiche incluse) di gran lunga più alti di quelli dei partiti. De Luca, che il PD meno di un anno fa aveva bollato come impresentabile, Emiliano, che il PD sembrava volesse sacrificare sull’altare di un ricercato accordo con Cinque Stelle, Giani, il vecchio nobile avvocato, che a Roma davano a rischio per la sua debolezza, nel centrosinistra, così come Toti, Zaia e Acquaroli, nel centrodestra, tutti hanno vinto per la fiducia popolare che sono riusciti a concentrare su di loro. I due candidati, infatti, (la Valle D’Aosta esclusa per via del sistema elettorale), Calderolo, in Campania, e Fitto, in Puglia, imposti dalle potenti segreterie romane, hanno perso clamorosamente.
Un vero flop. Il segnale di una vera punizione nei confronti di quelle forze politiche, che reclamo il cambiamento per gli altri, denunciano il marcio passato e del passato, ma si confermano come, se non peggiori, delle forze e del male che dicono di voler combattere. Dall’ultima tornata elettorale, emergono, però, due domande che la politica onesta e volenterosa deve saper cogliere ed interpretare. Non sarebbe difficile, tra l’altro, perché sono due domande che contengono già le risposte. I cittadini vogliono riprendersi lo spazio democratico che hanno progressivamente dovuto abbandonare. E se lo riprendono laddove la politica ha creato il vuoto di se stessa, vuoto pericolosamente estensibile a quello democratico. L’autorità credibile che da tempo non trovano in campo nazionale attraverso i leader e i partiti ufficiali, se la cercano nel solitario Conte e nelle massime rappresentanze locali, sindaci e presidenti di regioni in testa. Questa ormai innegabile realtà sta modificando, di fatto e al di là delle stesse norme sul decentramento, gli assetti di potere e gli equilibri di potere nel Paese. Se non sarà ripensata l’attuale situazione attraverso una nuova maturità del personale politico e dei partiti e le necessarie modificazioni dei meccanismi regolatori del sistema, il conflitto, cui abbiamo assistito tra il governo centrale e le regioni durante l’emergenza sanitaria, esploderà in maniera assai pesante, e forse incontrollabile, nei prossimi mesi.
L’altra domanda con risposta, finora non correttamente interpretata, si trova nel dato dell’affluenza alle urne. Il circa cinquantaquattro per cento di partecipazione al Referendum, prima che il desiderio di cabina elettorale, rappresenta la risposta psicologica al dramma vissuto dall’Italia nei mesi scorsi. Una sorta di sottile rispetto per le sofferenze di chi si è ammalato di Covid e ne è uscito vivo e per quei trentasettemila morti, che una scia di interminabile dolore hanno lasciato nel nostro Paese. Rappresenta anche, dinanzi ai nuovi contagi, per fortuna pochi da noi, e a quell’onda travolgente che ha colpito paesi a pochi metri dall’Italia, il modo coraggioso di esorcizzare la paura e di prendere di petto il pericolo per dominarlo. Ancora una volta, il profumo della libertà, la voglia di riviverla pienamente, ha ricaricato di forza antica la speranza.
Ancora una volta è la Democrazia la difesa contro qualsiasi cosa la minacci. È una bella riaffermazione questa. Che mette i cittadini a molti più passi avanti di chi li rappresenta. La politica saprà, riempiendosi, anche solo in parte, dello stesso anelito, raggiungerli? Da questa domanda dipenderà il futuro dell’Italia e della grande Europa che vogliamo costruire. L’economia, con tutte le sue forze ricattatrici sui bisogni della gente, viene dopo. Paradossalmente, viene dopo. Di un solo attimo, ma dopo.
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