Franco Cimino: "Facciamo il nostro più bel Natale: ritorniamo umani e cristiani"

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Franco Cimino
  05 dicembre 2020 15:33

di FRANCO CIMINO

“Alle fronde dei salici” è una poesia di Salvatore Quasimodo. È stata scritta e pubblicata nel 1946 sulla lunga scia del dolore intenso causato dalla guerra.  
«E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull'erba dura di ghiaccio, al lamento
d'agnello dei fanciulli, all'urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento”.

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Nel tempo della preoccupazione e delle sofferenze collettive, mi viene frequentemente in mente questa poesia, che conservo a memoria da quando ero un ragazzo. La ripeto, a volte tra le lacrime, in questi ultimi giorni.

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Sono lacrime di rabbia e di dolore. Di rabbia, perché dinanzi a una nuova guerra mondiale, come quella che stiamo subendo, la più brutta a causa della sua modalità di combattimento, del campo di guerra, delle armi usate, del nemico senza volto, tutti litigano con tutti. Senza un motivo vero che non sia il più bieco interesse o la più cieca stupidità.

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Litigano nel mondo le superpotenze. Litigano in Europa gli stati nazionali. Litigano in Italia le regioni tra loro e tutte insieme col  Governo, i comuni tra loro e tutti insieme con le regioni ed il Governo. Litigano all’interno delle città le categorie tra di loro, ciascuna pretendendo per sé la libertà che non concede all’altro, l’apertura del proprio esercizio che contesta all’altro. Litigano le scuole non si sa con chi e le famiglie degli studenti con le scuole se sono aperte, con le autorità se vengono chiuse, e tra di loro perché, di certo, il virus negli istituti l’ha portato quel bambino lì. Litigano infine i cosiddetti negazionisti o riduzionisti, i “vaccinisti” e gli scettici sull’efficacia del vaccino. Litigano i politici a chi la spara più grossa e tutti coloro i quali cercano consensi nella guerra della pandemia. In Parlamento litigano tutti. Nelle forze d’opposizione pure, magari per non perdere di vista quelle della maggioranza che litigano anche sul Mes come sui provvedimenti per contenere la diffusione del virus. Litigano tutti insieme, nessuno escluso,  per scaricare la responsabilità della precarietà del sistema sanitario nazionale e i ritardi con cui si è affrontato il covid che ci arrivava addosso, dicono direttamente dalla Cina, dimenticando che le regioni hanno da molti anni grande autonomia nella gestione della sanità territoriale e il governo quella prevalente sulla gestione delle emergenze. Litigano su chi ha la responsabilità della seconda ondata, su chi ha aperto troppo e prima. Da settimane stiamo tutti litigando pure sul Natale. Qui siamo unanimemente d’accordo tranne il DPCM, che odierebbe il Natale. Gli italiani, invece, lo amiamo molto. Ad esso da tempo affidiamo il compito di ravvivare l’economia, facendo girare almeno quattro miliardi di euro tra le varie tasche e le varie casse, di portare una piccola spesa nelle case anche dei più poveri e, sempre a loro, anche quel poco di cibo che manca tutto l’anno.

Al Natale affidiamo il compito di portarci i doni. E di farli portare da Babbo Natale ai nostri bambini insieme alle favole che abbiamo ascoltato anche noi senza invecchiare mai. Invecchiare ancora. Invecchiare ora. Al Natale affidiamo il compito di illuminare le Città e le vie dei piccoli paesi. Di portarci la bontà e i sorrisi e di farci diventare tutti buoni, con in tasca gentilezze da dispensare senza limiti e tanti gesti di perdono da santificare pure il diavolo. Al Natale abbiamo affidato il dovere di portarci alla Messa di mezzanotte, ché solo alla mezza esatta nasce Gesù Bambino, che per merito del Natale puntualmente ogni anno arriva. A farci dimenticare di essere stati nel modo in cui siamo stati per un anno intero e per farci riprendere il nostro essere tale e quale a prima, non  appena sarà passato il venticinque. Piango di rabbia per tutto questo e per me che non riesco ad essere migliore degli altri, che contesto mentre pienamente loro assimiglio. Piango, invece, per i morti di ogni giorno di questi interminabili consumati nella guerra più assurda. E nel tempo della più avanzata modernità, in cui la scienza che ci porta su Marte e con un un dito nelle conoscenze infinite o nel posto più lontano, non riesce a bloccare  un esserino che quasi non si vede, neppure sotto la lente del più potente microscopio.

Piango perché queste morti non commuovono più. Sono diventati solo un numero che velocemente viene dato nei telegiornali della sera. A febbraio e marzo, invece, ci commuovevamo alla vista di quei camion militari che di notte trasportavano salme per cimiteri lontani che avessero posto. Non un funerale, non una messa, non un familiare al seguito, soltanto la pietà di qualche infermiere che li ha accarezzati nel duro passaggio. Dall’inizio della pandemia sono ad oggi cinquantanovemila morti, una città intera. Ieri sera il bollettino ne ha registrati ottocentoquattordici. Il giorno precedente  è stata raggiunta la cifra record assoluta, novecentonovantatré.

I comunicati ufficiali ci dicono di stare tranquilli che si sta stabilizzando( ma cosa?), l’onda ha raggiunto l’apice e regredirà presto( ma quando?), che il famigerato RT è sceso addirittura a 0,91, che le terapie intensive si stanno liberando e molti di più i posti nei reparti. Sta pure crescendo progressivamente il numero dei guariti. E poi la notizia più attesa, quella salvifica: sta arrivando il vaccino. Questo ci dicono. E subito ci prepariamo ad un’altra estate pure in inverno, purché ci liberi da “ queste catene”. Ma questi morti!

Di questi morti, si parla poco e velocemente. Si dice che l’ondata nera non si fermerà presto, per cui è possibile prevedere che quel numero supererà tra tre settimane di molto la soglia dei settantamila, addirittura. E, però, noi siamo preoccupati del nostro Natale e della tavole del cenone con molti posti in meno rispetto ai precedenti. Ci tormentiamo per il divieto di quelle tavolate lunghissime con tutti i parenti e per la violazione di una nostra bella tradizione, come se questo fosse l’ultimo Natale delle nostre esistenze e dell’Italia. Ma di quelle tavole a cui mancheranno settantamila  familiari, nessuna parola, nessun dolore. Che importa, tanto sono quasi tutti vecchi! Si è detto, durante la prima fase(quella dei balconi pieni e delle strade vuote, del Presidente che sale da solo le scale dell’Altare della Patria e del Papa che cammina sotto la pioggia in Piazza San Pietro e in quello spazio vuoto ha parlato al mondo)che da questa pandemia saremmo usciti tutti migliori e con un Paese più bello in un mondo più giusto. Ci siamo ritrovati invece più divisi che mai. E cambiati in aggravamento del nostro senso umano.

La morte non ci scandalizza più. Ci siamo assuefatti alla sua invadenza, all’idea che essa non ci appartenga, neppure come pericolo per noi e i nostri cari. Si è sfilacciato il legame morale e spirituale tra l’esistenza e la fine, tra l’essere e il suo divenire. Tra il desiderio di giovinezza e la saggezza preziosa della vecchiaia. E di questo passo abbiamo smarrito il senso della vita, il piacere di viverla per gli altri, di spenderla per la più alta causa comune. Siamo arrivati rapidamente sulla line di confine. Possiamo ancora fermarci. Siamo tutti davanti a una preziosa occasione: facciamo che questo Natale si ritorni umani. Usiamo, parafrasandola, la poesia di Quasimodo e diciamo, con cuore sincero: “ma come possiamo noi festeggiare con questo enorme dolore sopra il cuore, fra i morti...”Stiamo strettamente uniti, allora. Un altro Natale arriverà e sarà nuovamente Natale. Gesù nascerà e la nostra vita nuova pure.

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