di FRANCO CIMINO
Non siamo ancora pronti. Nella patria dell’Umanesimo illuminante, nel paese della cristianità storica e profonda, non riusciamo ancora a capire veramente il singolo significato di vita e di morte. Pensiamo, super intelligenti come ci riteniamo, di poter decidere tra i due valori ritenendoli opposti e antagonisti nella perenne battaglia tra i due. La nostra scelta non è la vita, ma il vivere. Non ci importa come. Purché sia fisicamente godibile a lungo. Non ci interessa il morire, il come e il perché. Anche la nostra fine, come la nascita, indipendente da noi, è significata da una ragione pur misteriosa. Siamo talmente presi dalla vita e dalla sua forza, che non pensiamo né alla vita stessa, né alla morte. Non pensiamo al tempo, per nulla variabile indipendente, che apparentemente le distanzia. Neppure al gioco che esso, il tempo, fa con la forza e la nostra bellezza, ambedue fisiche. Non ci pensiamo e basta. Corriamo senza pausa di un respiro, da una parte all’altra del nostro spazio. Mai camminiamo dentro il nostro essere. La mente fa la stessa cosa. Ma senza pensare. Il cuore batte sempre più forte. Per l’ansia delle prestazioni. Per voglia di arrivare nel non sappiamo dove. Batte più forte per la voglia sempre accesa di essere visti. E riconosciuti, nella piazza più anonima, attraverso l’immagine alterata di ciò che, dimentichi della nostra identità, vogliamo mostrare di noi. Sempre più copia del modello imposto.
É solo quando la nostra forza fisica incomincia a cedere, magari sotto l’incalzare del tempo, che ci fa addirittura “ rimproverare” gli anni buoni che ci hanno raggiunto, ovvero quando improvvisamente la malattia la piega, che pensiamo all’altra “cosa” sforzandoci di trovarne il valore. Ci interroghiamo su di essa. Ma non la interroghiamo. Per paura che risponda in modo indesiderato. Ci tratteniamo, solamente. Sempre per paura. Anche “dall’imprecarla”. É la vita che ci preme trattenere. Null’altro. Specialmente, quando si tratta dei nostri cari. Lo è tanto che il corpo, che la conterrebbe in maniera esclusiva, lo concepiamo come un feticcio. Un qualcosa di sacro. E, perciò, intangibile. La vita è nostra. Ci appartiene. E se non possiamo deciderne il suo tempo, il possesso del corpo ci gratifica. Anche quando esso, di luce e di battiti, si sia spento. Il corpo, materia in cui noi siamo. Nel concetto fisico di vita, che ci educa. La vita individuale come valore in sé. Esaustivamente chiusa nel tempo soggettivo di sé. Ieri sera, però, nella sala della musica di palazzo De Nobili- Santa Chiara, è andata in scena un’altra rappresentazione. Della vita e della morte. Un altro racconto dell’uomo, che le detiene per delega e affidamento. L’occasione utilissima ci è stata offerta dalla solita Fidapa, che ormai a Catanzaro svolge un ruolo di stimolo socio-culturale di enorme importanza. La Città ne ha molto bisogno. Cosa è successo di tanto utile? É successo che la felice accoppiata di donne, Rossella Barillari e Barbara Lucia, ha chiamato una terza donna, Anna Grande, medico, responsabile di Terapia intensiva( donazione e trapianti) del nostro ospedale. Le tre Donne ne hanno chiamato una quarta. É una madre anziana, trafitta dal dolore per la perdita improvvisa, trent’anni fa, della figlia. Con tutte loro, due uomini, testimoni del donare e del ricevere. Cosa donare e ricevere? Era questo l’inquieto tenero pensare che si è mosso, anch’esso inquieto, nel titolo” Donazione degli organi: Tutto inizia con il tuo "S!", che ha dato vita all’incontro. Breve il tempo di permanenza nell’affollata sala. Brevi e chiare le due relazioni delle donne Fidapa, Rossella, presidente, e Barbara responsabile ufficio salute. Brevi le domande asciutte e intelligenti, da loro due poste agli interlocutori. Breve, intensa, chiara, a tratti commovente la “ lezione” della dottoressa Grande. Breve il tempo riservato al dibattito per assenza di richiesta di parola, dopo le testimonianze di Colacino, il noto artista, di quella mamma e di quel papà, e l’intervento altrettanto breve della professoressa Daniela Faccio.
Rompere il silenzio pieno di emozioni forti e di parole silenziate al grido dell’anima, come sarebbe stato possibile? Si è insolitamente chiuso presto. E più breve è stato il ritorno a casa. Ma tutti, e non eravamo pochi, siamo ritornati diversi da come ne eravamo usciti. Non tutte le paure erano immediatamente scomparse, vero. Molti dubbi sono rimasti. Di certo, però, la pietà e il tormento, che erano presenti dall’inizio, si sono trasformati in una certezza e in una domanda. La certezza che dalla morte può, come dalle mani di un artigiano, dalla mente di un creatore, rinascere una e più vite. Da una persona che muore, una o più che vivranno ancora rispetto a una condanna sicura. Tanti posti nei cimiteri e contemporaneamente, magnifica contraddizione, tantissimi negli ospedali, potranno essere lasciati vuoti o liberati. Cosa c’è di più bello in un mondo che, tra guerre e povertà, ammazzamenti crescenti e violenze durissime, ha perso il senso della vita, che cercarla, attenderla, offrirla, riceverla?La donazione degli organi è la nuova frontiera della solidarietà umana. Il nuovo percorso lungo la strada della riscoperta del valore della vita.
La traccia indelebile verso la costruzione di una società fondata sull’Amore. Quello vero, la gratuita donazione di tutto o una parte di sé per la felicità degli altri. La legislazione italiana ha fatto passi da giganti su questo tema. Negli ultimi trent’anni le donazioni sono sensibilmente cresciute. La capacità delle nostre strutture ospedaliere nel rapporto di stretta continuità tra espianto e reimpianto, la preparazione delle equipe mediche specialistiche, l’evoluzione della tecnica chirurgica e della medicina, ha fatto sì che la già larghissima e crescente percentuale degli interventi, sia di successo pieno. Ma ancora è poco. La legge c’è, lo spirito di solidarietà pure, ciò che manca ancora è la piena coscienza di un atto che si appartiene alla nuova responsabilità verso la vita. La società. La persona. Il mondo. Ché salvare una vita è davvero- come dice il principio ebraico- salvare l’umanità. La nuova responsabilità nella nuova coscienza ci fa donatori vivendo. E felici sapendo di poterlo essere un giorno effettivamente. Quel giorno che verrà per tutti. Educarci a questo sentire, tramite anche la scuola e la famiglia e il nostro credo religioso, ci obbliga al piacere di un’altra responsabilità. Quella verso noi stessi. Se ho deciso in vita di essere donatore, se questa volontà è stata formalizzata in atti e documenti e trascritta nella mia carta d’identità, io ho il dovere di prendermi cura della mia persona. Non solo per me, ma per gli altri.
Cercherò di mantenermi sano nel caso in cui un fatto improvviso mi “consentisse” di salvare vite attraverso la donazione dei miei organi sani. In pochi anni avremmo una società più sana e più ricca. Più serena. E, probabilmente, anche tesa alla felicità possibile. La società matura di uomini sensibili, che doneranno solo per il dovere-piacere di donare. Senza la paura di perdere qualcosa anche in ciò che di noi è finito. E, sentire più importante, senza l’illusione, trasferibile anche ai nostri cari, che vivremo ancora quando saremo andati. Non ci servirà più questa rassicurazione quasi “ riparati va o compensativa” del “sacrificio”. No, no. La nostra presenza terrena continuerà nelle opere che abbiamo fatto, nel bene continuo che abbiamo offerto, nell’amore costante, umile e semplice, che abbiamo “ donato”. E, se credenti, nell’Aldilà dove per i buoni nulla finisce e tutto vive.
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