Franco Cimino: "I ventuno ragazzi di Mestre, tutti figli anche nostri"

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Franco Cimino
  04 ottobre 2023 11:09

di FRANCO CIMINO

"Un viaggio tranquillo. Breve. In un percorso quasi tutto urbano. Da Venezia a Marghera. Nulla di più tranquillo. Il breve “ponte”, alto trenta metri, forse meno da quel che si vede in TV, è una strada ancora più sicura. Si trova a Mestre, la parte più nuova dell’antica capitale veneta. Attraversa, per rendersi più breve ancora, il fugace tratto di ferrovia che raggiunge quella stazione importantissima. Nulla quindi di più tranquillo, il rapido viaggio è percorso da un autobus. Trattandosi di una regione ricca e moderna, il mezzo sarà stato sicuramente tra i più nuovi, eleganti ed efficienti. Nessun guasto tecnico si potrebbe immaginare. Salendovi, proprio senza temere. Nulla di più sicuro e tranquillo, pertanto. Non era notte, neppure. Ché i viaggi di notte, a meno che non sia con il treno o l’aereo, fanno sempre un po’ paura.

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Erano soltanto le diciannove e quarantacinque. L’ora di cena, da quelle parti. E la cena, infatti, sarebbe stata il prossimo appuntamento. Ma sono i due punti delle destinazioni i più “ loquaci” nel dire della tragedia immane di ieri sera. Marghera, partenza e ritorno, Venezia per tutto il giorno, la meta. Davvero ambita, come lo è per tutti i sognatori del mondo. Forse, più di Napoli, per godere della morte dopo averla vista. Più di Roma, che ti fa salire in cima al mondo, divenendone imperatore per un minuto. Venezia, è per gli innamorati, che lo sono incontrandola. Per quelli che sognano di divenirlo con il soggetto dell’amore tante volte sognato. Desiderato. Cercato. Venezia, il Paradiso dei romantici. E gli occhi che si perdono al di là della laguna.

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Questo viaggio ci dice, allora, che si trattava di una gita per turisti. Marghera, periferia della periferia veneziana, luogo antico della prima Venezia industriale, oggi trasformatasi, e intelligentemente, in polo di ricettività turistica per giovani e per i meno abbienti. L’opposto, diciamo, dei turisti che al novanta per cento, la abitano in tutte le calle che si muovono da piazza San Marco. Quelli del turismo dei ricchi, insomma, per i quali la tazzina di caffè a trenta euro equivale alla mancetta che lasciano sui tavolini dei bar e dei ristoranti. Il pullman caduto dal ponte era, prima che le notizie lo confermassero, il mezzo per il viaggio di giovani, figli delle regioni e del tempo della scarseggiante ricchezza. Le prime notizie dicono che erano quarantanove, compreso l’autista. Dicono che erano quasi tutti giovanissimi, compresi probabilmente i genitori delle due bambine decedute. Dicono che sono tutti non “ stranieri” ma europei e che le loro nazionalità sono quelle ucraina, slovena, croata. Vi sarebbero anche giovani tedeschi e francesi. E una donna austriaca, madre delle due bimbe sottratte alla vita. Insomma, una sorta d’Europa dei nostri ragazzi, raccolta in un fazzoletto.

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Dicono che il pullman precipitato dal cavalcavia fosse pure nuovo ed elegante. Dicono che di quel bel carico di passeggeri, ne siano morti in ventuno, autista italiano di soli quarant’anni tra questi. E che gli altri siano tutti feriti, non pochi in modo grave. Dopo settimane di polemiche stupide, tutte italiane e, quindi, provinciali, si guarda oggi alla realtà dura, quale ci si presenta, non poche volte, con il volto brutale di un “ destino” cattivo. Una realtà che è fatta di sofferenze durissime( la povertà che ci assale quasi tutti) e di queste ultime più atroci. Insopportabili. Soffermiamoci un attimo su questa, anche se durerà lo spazio davvero di un mattino. Nel tempo ancora più breve che brucerà rapidamente le nostre emozioni di “ bandiera”. Quelle che ci “ tormentano” davanti alle salme degli italiani caduti per mano cattiva.

Quando avremo definitivamente accertato che i poveri ragazzi non sono “ nostri”e che loro salme partiranno per le destinazioni d’origine e che non vi saranno i funerali solenni, in diretta televisiva, nella bella cattedrale di Venezia alla presenza delle “ più alte autorità dello Stato, dai presidenti della Repubblica e del Consiglio all’ultimo dei ministri o capo di partito, il nostro “ dolore”, caricato oltre misura dall’assurdità del tragico evento, da “scena apocalittica”( espressione ricorrente in tutti), si consumerà alla velocità della luce. Non ci strapperemo i capelli neppure per l’autista, per i motivi immaginabili facilmente. Non resterà nulla di quella tragica sera. “Ieri sera a Venezia”, non sarà più neppure il titolo di un articolo. Quel cavalcavia, già domani, avrà la sua barriera, magari rafforzata. Resteranno soltanto i verbali degli organi deputati su cui campeggerà la frase “ incidente assurdo”. Può essere così? Le guerre di ogni genere, quelle classiche e militari, quelle economiche della povertà, e quelle delle traversate di deserti e del mare, ci hanno abituati all’idea che la morte sia un evento ormai ordinario. Normale. Quasi una necessità che quell’altra “ natura, sempre più nascosta, impone per regolare il rapporto, minacciato sempre più nel suo equilibrio, tra risorse e popolazione del pianeta. Ci siamo assuefatti non solo all’idea della morte, ma anche alla morte in sé.

Quella che vediamo con i nostri occhi. Tutti i giorni, attraverso le televisioni e la rete, che si è ormai trasformata in un giornalismo diffuso. In un canale d’informazione in costante presa diretta. Ma la morte che ci ha preso la mano e si è fatta abitudine, è sempre quella degli altri. I giovani, per cui ci commuoviamo, sono sempre i figli degli altri. Quando l’emozione si fa più forte, quasi incontrollabile, è perché pensiamo che in quel posto, su una strada qualsiasi, ci si sarebbe potuto essere un nostro figlio. E l’emozione, continua, quando da qual tormento passiamo al rasserenamento che, per “ grazia di Dio”, quel figlio non sia il nostro. Il mondo sta perdendo il suo cuore antico. L’umanità, il senso profondo del suo essere una sola comunità. L’uomo, la sostanza umana del suo essere. E il suo patto con ciò che lo precede e lo segue, la Natura o un Essere Assoluto, la sua più profonda religiosità. Stiamo regredendo, la natura umana sta tornando assai indietro. L’essere umano sta cambiando la sua natura, portandosi da essere sociale a elemento individuale. Da persona, in sé solidale, all’io individuale. Dalla generosità all’egoismo. Tutto questo “papocchio” etico-filosofico per soli ventuno morti, quando la tragedia in mare( prontamente dimenticata) di dieci anni fa, con i suoi trecento e più morti sepolti nel Mediterraneo, non è stata adeguatamente “ celebrata”? Mi dirà taluno che mi leggerà con più rigore.

“E dei morti in terra ucraina di cui neppure il conteggio si conosce?”Aggiungerebbe talaltro, il più pensoso…al bar dello sport quando prende fiato dalle discussioni infervorate per la squadra del cuore. E, invece, no. Evitiamo di arrenderci a questa dimensione negatrice della cultura umana. Riprendiamoci il cuore e gettiamolo oltre la siepe. Al di là di ogni alto muro dell’indifferenza. E del rancore che si trasforma in odio, parimenti all’invidia quando si prolunga verso il desiderio del male altrui. Riprendiamoci le parole cancellate( comprensione, tolleranza, accettazione, integrazione, solidarietà, gratuità, Amore) e gridiamole ai nostri ragazzi affinché le “ sentano” contro il rumore di questa società sempre in moto. Facciamo un patto tra noi adulti, sfidiamoci a vicenda, iniziamo la mattinata e chiudiamo la sera, dicendo, per parlarne, ai nostri figli, una di queste parole. Facciamolo anche quando entriamo nelle stanze del nostro lavoro. Ogni giorno. O nelle strade, obbligandoci a salutare chi incontriamo e fermandoci almeno un minuto com l’amico o conoscente. Prendiamo, tutte le mattine, una parola sempre diversa tra queste, e, come docenti di qualsiasi ordine grado d’istruzione, iniziamo la nostra lezione con questa. Che sia di letteratura o di filosofia, di matematica, di materie scientifiche e umanistiche, non importa. La Scuola è vita, che va vissuta mentre la Scuola si fa durante la vita che si vive. Ché quegli edifici, affascinanti ancora, sono il tempio laico della cultura dell’essere. Per il senso umano del suo divenire.

Oggi, quindi, piangiamo quei ragazzi di Mestre come davvero figli nostri. Figli dell’unica Terra, che perde i suoi fiori. O di quel campo di grano che ha bruciato, il quel rogo, le spighe più belle. Di queste, facciamone fiore. Ventuno fiori. E regaliamoli al mondo. Facciamone immagine per la nostra memoria più ferma. Facciamone dono per i nostri ragazzi, figli o allievi, tutti nostri. Io penso, al di là di ciò che mi insegna la mia religione, che tutti i giovani, ma proprio tutti, vadano, da qui, in un posto meraviglioso, dove staranno bene e insieme. Per cui quel pianto si trasferisca, per non fermarsi alla sola consolazione, ai genitori, ai parenti e agli amici, ai nonni, dei ventuno caduti “per Venezia”, il cui dolore è più grande, più assurdo, più insopportabile della morte che l’ha provocato. È qui che l’Amore ritrovato ci deve far sentire più degni di essere e padri e madri dei nostri figli. Italiani del mondo".

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