di FRANCO CIMINO
Se non ci fossero state le video riprese di quei cento secondi della seduta del Consiglio Regionale, celeberrimo ormai, e se la rete non le avesse ampiamente diffuse, noi non sapremmo mai del dramma consumatosi nella massima istituzione calabrese. Dico delle video riprese e non della notizia già in sé molto grave. E dico anche dell’importanza che le immagine talvolta hanno rispetto alle parole. E non perché arricchiscano un fatto avvenuto, ma perché lo presentano per come è avvenuto.
La modulazione del linguaggio, la mimica facciale, la comunicazione non verbale tra i due momenti, parlano molto più di cento testimoni. Fare un fermo immagine ha più peso che raccogliere la notizia. Nella comunicazione spesso ciò che si ascolta o si legge ha meno durata di ciò che con i propri occhi si vede. La memoria dei fatti, che si collocheranno nella storia di una comunità ha un’importanza vitale. Anche per la Politica, che nell’immediatezza può trasformarli in quella valutazione attenta che li collochi in un contesto più ampio. Dove gli stessi acquistano una valenza che va ben oltre la cronaca. Oltre il fatto stesso. Oltre la motivazione che l’ha determinato dentro la cultura che l’ha prodotto come conseguenza e precedenza di altri analoghi. Per esempio (l’ultimo accadimento nel Consiglio Regionale lo documenta ampiamente):il disinteresse verso la cosa pubblica, l’insensibilità nei confronti dei drammi della gente, l’assenza di senso dello Stato e delle istituzioni, l’uso personale di queste ultime e l’idea che una carica, tra l’altro elettiva, serva per cambiare il proprio status economico e sociale mentre il potere altro non sia che il poter fare per se stessi e non per gli altri. Senza memoria dei fatti , la storia non si fa e il dramma manterrà sempre la forza di quel breve testo scritto col gesso sulle vecchie lavagne di una scuola lontana, che si cancella con un solo colpo di cuscinetto.
Senza memoria la nuova coscienza politica non può nascere. E senza coscienza, il buono e il nuovo non possono nascere, lo stato sociale manterrà i vecchi assetti e gli equilibri di potere resteranno a favore di quella ristretta aristocrazia, che dei politici mediocri si serve per continuare a saccheggiare la nostra terra e a sfruttare la povertà dei suoi abitanti, producendo uno dei pochi clamorosi casi al mondo. Quello nel quale la povertà generale e strutturale fa più ricchi i già ricchi e più potenti i furbi e gli opportunisti, che nel malaffare prosperano e nella brutta economia affaristico-mafiosa si muovono come i pesci nell’acqua.
Alla Calabria per cambiare servono memoria e coscienza politica, resistenza per la la prima e coraggio per la seconda. La Calabria non è mai cambiata proprio per la mancanza sia della memoria sia della coscienza e dei necessari attributi a sostegno. Se molti di coloro i quali oggi si scandalizzano della leggina pro- vitalizio per le brevi “soste” nella legislatura, avessero avuto almeno la memoria, avrebbero ricordato che pochi mesi prima della scadenza della precedente consiliatura, all’unanimità è stato reintrodotto il vitalizio abolito ai tempi di Scopelliti addirittura. Lo hanno chiamato con un altro nome e agganciato e quella leggina nazionale sul contributivo riguardante i parlamentari. A scandalizzarsi allora fummo in pochi e lo scandalo imperversò solo come una fiammata su un fornello di cucina rotta. Sarà così anche questa volta.
La vergogna durerà quanto l’interesse che vi daranno quelle trasmissioni televisive che fanno audience con le le brutte notizie e il clamore da esse suscitate. Se avessimo memoria dovremmo ricordare che non v’è stata legislatura regionale che non abbia avuto i suoi fatti gravissimi, tra i quali sarebbe difficile scegliere in base alla loro pesantezza. Ogni volta sempre oltre ogni confine della decenza e della prudenza. Si è votato solo quattro mesi fa, secondo il vecchio schema del trasformismo, del trasversalismo, del riciclaggio di vecchie figure dal viso vecchio o nuovo, delle liste fatte nel chiuso delle cantine o nei salotti romani, prodotte o assegnate a partiti che qui non esistono neppure se li volessimo inventare, con candidati alla presidenza imposti all’ultimo minuto, e molti candidati che, nella deprecata logica clientelare, per mesi hanno chiesto il voto per se stessi senza la certezza della lista o partito o schieramento nel quale si sarebbero presentati.
Se avessimo avuto memoria avremmo, anche solo per fare dispetto “ai santi e ai fanti” o soltanto per provare, votato in massa il primo che fosse anche solo lontanamente apparso diverso e distante da questo mondo unificato e da questa cultura omologante. Invece, il risultato, lo ricordo a me stesso continuamente, è stato il seguente: cinquantasei per cento di astenuti, il resto a Iole Santelli( sessantaquattro per cento di quel quarantaquattro per cento di votanti) e a Pippo Callipo. I leaders cioè dei due schieramenti che, dimenticandosi della grave emergenza calabrese e della più pesante povertà che l’accompagna, hanno votato unitariamente la leggina oggi deprecata da tutti. Anche da loro stessi, facendo ridere l’Italia con un ripensamento motivato e più ridicole versioni e giustificazioni. Carlo Tansi e Francesco Aiello, lo ricordo sempre a me stesso, sono rimasti fuori dal Consiglio Regionale con almeno altri tre loro compagni, per molto meno di un solo punto percentuale( poche centinaia di voti) ciascuno. Se sono rimasti fuori non si dica che la colpa sia della signora Santelli o di un nemico invisibile che congiura da tempo contro la nostra terra per chissà quali interessi di politica internazionale. Torniamo, allora, a quel video per capire che il problema è molto più grande della famigerata leggina. Lo richiamo, per mia memoria personale. Esso recita così (negli occhi ho il tono e la mimica dei protagonisti e l’aula distratta con pochi consiglieri ordinatamente nei loro posti): il presidente dell’Assemblea, declinando velocemente il titolo, chiede al relatore di presentare l’emendamento. Il consigliere, prima da seduto poi in piedi e distratto da chi gli parlava alle spalle, dice: “ l’emendamento si presenta da sé”. Il presidente, con rapido rimando, accetta e commenta testualmente “ ah, si presenta sé.” Qualcuno degli scandalizzati ci ha visto dell’ironia, io invece una sorte di arrendevolezza e di insufficiente autorevolezza. In un altro contesto, il malcapitato consigliere avrebbe ricevuto dal suo presidente con poche parole una ramanzina del genere: “ lei, onorevole consigliere, non offenda questa Assemblea e relazioni immediatamente. Lo faccia come le condizioni, personali e oggettive, dettano, ma non lasci questa istituzione nello spregio di se stessa.” Tutto questo non è avvenuto. Il grave atteggiamento dell’opposizione( meglio dire della minoranza) più che nel voto si trova anche nel silenzio che ha mantenuto dinanzi a quel brutto quadro della democrazia offesa. La questione, pertanto, non è data da una piccola ripetuta vergogna, che ricadrà sempre su chi la compie e su coloro i quali l’hanno ordita o coperta o sostenuta. La questione vera riguarda il funzionamento di questo sistema politico, la dignità delle istituzioni, l’onore di chi le rappresenta e il rapporto sempre più precario tra i calabresi e il potere politico. Riguarda la qualità delle classi dirigenti e il loro rapporto con i poteri diversi. Specialmente, quelli invisibili che condizionano sempre più fortemente le scelte politiche, gli stessi equilibri di governo e il consenso per la conquista del governo.
Riguarda i meccanismi con cui si realizza il consenso tramite la richiesta del voto, i soldi che si impiegano per “ curarlo” attraverso campagne elettorali costosissime. E, su questa scia, il quadro generale in cui rigidamente si racchiudono quegli eletti che da questa subcultura sono prodotti a servizio fedele della stessa. La questione vera, pertanto, ha più denominazione tutte concatenate: morale, politica, istituzionale, democratica. In una sola parola, Calabria. Solo una grande lotta per la Democrazia, lunga e rischiosa, per chi l’avrà avviata e sostenuta, potrà avviare quel processo profondo di rinnovamento nella e per la nostra terra. Se la parola non intimorisse direi “ rivoluzionaria”, ché i veri cambiamenti si radicano sempre nelle azioni collettive. Quelle di popolo, che abbattono radicalmente il male e costruiscono il bene. La rivoluzione, dunque, senza violenza se non quella “ pacifica” che sradichi dai nostri cuori pigrizie, egoismi, indifferenza, invidia e gelosie, tornaconti personali e striscianti soggezioni verso i presunti forti e le nostre accertate debolezze. È vero, mancano figure carismatiche e organizzazioni autorevoli che possano attivarla chiamando a raccolta le forze sane della regione. E, soprattutto, sapendo tradurre in opposizione democratica il rancore e la spinta alla rivolta che rischia di esplodere sul terreno minato della povertà e della disperazione. Mancano queste energie, è vero. Ma se la Chiesa si mettesse in marcia, le università aprissero i loro castelli, le scuole parlassero ai giovani oltre che agli studenti, gli ideali facessero capolino dentro i partiti e le libere associazioni, le categorie diventassero corpi sociali invece che corporazioni, i nostri teatri raccontassero di noi e gli spettatori di qualsiasi rappresentazione “ esistenziale” diventassero cittadini.
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