di FRANCO CIMINO
“Non moriremo democristiani”. L’ho sentito dire, e mi è stato detto, per tanti anni. Dalla mia primissima giovinezza fino a quell’anno in cui fu decretata la morte della Democrazia Cristiana. Nessuno se non chi l’ha davvero amata, avvertì un dolore profondo come quello di una perdita di una persona amata, essenziale nella vita. Nessuno, se non chi era dotato di intelligenza critica e di onestà culturale, capì il dramma politico che da quella decretazione ne sarebbe seguito. A metà degli anni novanta quel motto, quel grido di battaglia, quel giuramento e quella promessa, e perché no? anche quella scommessa o sfida, fu lanciato in aria come quei fuochi d’artificio della festa del patrono. Moltissimi festeggiarono. La DC non c’era più. Tanti democristiani insinceri traghettarono su altre sponde. Non pochi, delle sue file nascoste nell’opportunismo e nella mediocrità, costruirono carriere facili. Specialmente, in Parlamento e nelle regioni. Lo scenario all’improvviso cambiò.
Dagli scantinati della Repubblica, dove prima ordivano colonnelli senza stellette e illuminati senza luce, spuntarono i nuovisti che non conoscevano il nuovo, i ribaltatonisti che non studiarono il riformismo. E i rinnovatori improvvisati sull’interesse. Quello proprio. E quello di una vecchia cultura da riverniciare. La cultura, cosiddetta reazionaria, già sconfitta dalla nostra Costituzione, che, diversamente da quella, vuole che i deboli, gli esclusi, i poveri, le classi “ non elette”, e le categorie e le razze e il genere femminile, i pensieri non prevalenti e tutte le minoranze abbiano eguale dignità e possano godere di tutti i diritti, primo fra tutto quello di poter rappresentare se stessi e tutto il Paese nella naturale dinamica dell’alternanza al potere. Un Paese fermamente democratico, che abbia al centro il valore assoluto della persona e la libertà di cui essa costitutivamente si compone. Si festeggiò in una una notte che non sembrava finire mai. Si festeggiò al tintinnio di manette e sotto le bandiere del giustizialismo la nascita di un’altra Repubblica. Quelli che vi aderirono subito pensarono non solo di non morire democristiani, ma addirittura di non morire mai. I più umani, o i più modesti, al massimo pensarono di morire comunisti o “fascisti” o liberali europei. In verità, io, democristiano sin dai miei quattordici anni mai interrotti nell’ideale, non me la prendevo molto quando quel detto mi veniva lanciato come una provocazione o uno sfottò. Anzi, rispondevo in due modi sempre uguali. Primo: “io, di certo, resterò democristiano fino all’ultimo”. Secondo: “no, vedrete, moriremo tutti democristiani”. E sarà un bene, perché quegli ideali, a cui i popoli che saranno usciti dal totalitarismo e dal fallimento del capitalismo, si rivolgeranno, salveranno le società dalla rovina e costruiranno il mondo nuovo. Aggiungevo: non da soli ma con quegli altri grandi pensieri politici, che, pur sepolti da ideologie rigide e assolutiste, quando si sono liberati dai lacci più stringenti, hanno contribuito ad edificare la Costituzione più bella, la Costituzione italiana. Per tutti, in particolare per le ideologie chiuse, ci sarebbe voluto, però, un passaggio critico impegnativo, che consentisse di conservare il buono e cancellare il vecchio. Il vecchio di una una concezione del potere che aveva nei falsi idola la forza del comando autoritario o della spinta corruttiva degli ambiti in cui si esercita la decisione e si amministrano le risorse della collettività. Idola, che hanno deprivato il consenso di ogni carica ideale, più volte confondendolo con la “ caccia al voto” e, questa, con la misera presunzione che esso, voto quale consenso, potesse restare scisso dalla sua piena libertà di espressione. L’operazione, che si voleva passasse tra le più storiche degli ultimi settant’anni, quella cioè di unire le due più grandi culture politiche del novecento in un nuovo grande partito nazionale, popolare e di massa, ha visto in questi ultimissimi giorni il pericolo reale di una fine imminente.
Oppure, di una condanna alla marginalità e alla “ininfluenza” sul terreno dei nuovi equilibri di potere, nazionale ed europeo. Due sono le responsabile, tutte da approfondire fuori da questo articolo che si impegna di essere breve rispetto alle tematiche affrontate. La prima è quella del più importane fondatore del PD, quel Walter Veltroni, il comunista che si dichiarò non comunista e che aveva, con uno dei discorsi più belli in assoluto, tenuto al Lingotto di Torino nel 2007, dato vita, non senza lacerazioni, anche interiori, al nuovo partito. La responsabilità inemendabile fu quella di lasciare, sia pure con la classe e l’eleganza di un uomo politico di classe ed elegante, la carica di segretario alla prima sconfitta elettorale, e cioè molto tempo prima della scadenza del mandato. La seconda è stata quella di aggregare sulla fine di due partiti storici, la DC e il PCI, quelle sigle nate da essi e che senza una robusta discussione sui veri motivi che segnarono la chiusura di quelle esperienze, pretesero di rappresentarne la storia. Una pretesa assurda, come quella di coloro i quali pensano di versare due oceani in due bottiglie da un litro.
Oggi il PD, dopo le dimissioni clamorose del segretario eletto al congresso di due anni fa, Nicola Zingaretti, chiama al suo capezzale un “democristiano” ancora giovane, e gli affida, prima ancora di ascoltarne la parola e le parole, come lui stesso ama dire, trasformate in programma, una sorta di guida assoluta. E senza condizioni se non quelle che il prescelto stesso ha posto agli interlocutori che l’hanno chiamato. Il nuovo corso, quello della salvezza o della ricostruzione, si chiama Enrico Letta. Un nome che dice molte cose. Alcune da approfondire.
Sopratutto, la parte brevissima della sua ultima dichiarazione pubblica, in cui Letta afferma di essere molto cambiato. “ Sono una persona diversa da quella che se n’è andata sette anni”. Letta qui, forse freudianamente, giustifica un fatto che la mia educazione politica di vecchio militante, non giustificherebbe molto facilmente. L’aver lasciato il Parlamento, il partito, il Paese, tutti in uno stato di grave difficoltà, per andare in Francia a svolgere un altro mestiere, è colpa grave. Politica, innanzitutto. E poi anche morale. Fatto che, a mio avviso, non giustifica questa acclamazione di un solenne ritorno da salvatore della patria. Comunque, questa è la scelta compiuta dal PD e va rispettata anche se io mi pongo la domanda che non ho visto aleggiare da nessuno parte: perché non Walter Veltroni, che ha rinunciato, tra l’altro al suo sogno di andare in Africa ed è rimasto a dare un contributo critico e di idee forti al suo partito e all’intera sinistra? Se è stata una segreta scelta per preservarlo alla possibilità di succedere a Sergio Mattarella, nel caso in cui questi rifiutasse quella seconda elezione al Quirinale che meriterebbe appieno ( sarebbe anche la più intelligente “ necessità” per tenere unito il Paese in delle fasi più drammatiche della sua storia) hanno fatto bene. Anche questa risposta potremmo trovare domani, ascoltando il dibattito che precederà la “ consegna” al nuovo leader del partito. Enrico Letta, cambiato o no, più maturo e più esperto certamente, è un uomo intelligente e ricco di qualità, come pure, da sempre, di solide tutele e di robuste assicurazioni. Saprà sicuramente fare importanti cose. Ha il polso pure buono e quella cattiveria che ha conservato da quel rapidissimo passaggio di campanella il giorno in cui ha lasciato Palazzo Chigi. Ma quale partito vorrà riedificare, da quali forze ripartire e verso quali, di quelle sociali, indirizzare un progetto di autentico rinnovamento della Politica e di reale trasformazione sociale, e, soprattutto, quale società vorrà contribuire a costruire, questo lo vedremo presto. Il Paese attende un tempo nuovo. Ed è tempo che arrivi, ché e già tardi.
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