Franco Cimino: "La città delle pietre, il re, il filosofo e il buffone e questa mia brutta tentata 'poesia'"

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images Franco Cimino: "La città delle pietre, il re, il filosofo e il buffone e questa mia brutta tentata 'poesia'"
Franco Cimino
  12 ottobre 2021 13:17

di FRANCO CIMINO

Ieri sera ho visto un re, un filosofo e un buffone. Li ho visti nella stessa persona tutt’e tre. Sono scesi( è sceso) nella mia( la sua) Città per insegnarci a salvarla come si fa. Non abbiate paura più - ha detto sornione- ve lo diranno i miei ragazzi del MU. Stava fuori, quando l’ho visto, attorniato da un po’ di gente, la solita di numero e attenzione.

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“ Vuoi vedere che questo avrà ragione?” Ho sentito dire passandogli accanto, io che i filosofi riconosco e delle loro parole m’incanto. “ Venite dentro, questo è il Teatro dove c’è un altro buffone che viene da lontano, nel tempo e dalla periferia. Voi non lo ricordate o non lo sapete, il suo luogo piccolino si chiamava teatraincanto. E dice bene, ché tutto ciò che fa teatro fa piangere e fa ridere, commuovere e pensare, aggiunge inquietudine e allevia le pene. Lui, è Francesco Passafaro, allievo mio e figlio d’arte di quel genio di Nino Gemelli, un vero faro.” E poi, quella triade umana, ci dice che Passafaro è pure un pazzo, ché solo i pazzi veri sanno sognare e lanciare in cielo idee con la forza di un razzo. Come quella di fare di un luogo, destinato a morire con il proprietario tanto generoso, un tempio di vita dal carico culturale impetuoso. “Io che di idee ne ho più di cento mi batterò solo per una: Catanzaro è anche il suo storico Centro.” Son parole sue, del direttore del Comunale, che diversamente da altri più “ celebrati, in questo tempio lo trovate a tutte le ore”, ci dice quell’uomo ancora voluminoso nonostante ci nuoti dentro quei pantaloni una volta stretti come la casacca e i maglioni. “ E, allora, che fate, restate qui o entrate?” Io non ho aspettato neppure che finisse che, anticipandoli, mostro la prenotazione, fila F, posto uno, e corro senza voler anticipare nessuno.

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A me il Teatro piace, qualunque cosa voglia dire e opera rappresentare. Mi piace perché mi fa pensare, mi aiuta ad amare. Innanzitutto, Catanzaro, il luogo a me più caro. Andare a Teatro, significa attraversarla anche un poco e, dall’interno del suo antico essere, sentirla come una brezza sul viso mentre la mia mano teneramente l’accarezza. Dentro ancora non c’è tanta gente, colpa del Covid o del nostro piacere a non far niente. Specialmente, di sera ché si cena lungo e, “ ballando con le stelle” o le partite di pallone, restiamo inchiodati danzanti alla televisione. Tra un po’ si inizia, vedo un po’ chi c’è dietro e davanti a me. Alla mezza delle ventuno dal sipario già aperto si mostra una scena fredda e nuda, le mezze luci a muoversi lentamente su di essa, come a volerne cambiare la fissità di se stessa. Sono forme diverse ma grandi, sembrano pietre più immobili della loro stessa natura, eppure dicono molto all’interno di una nuova cultura.

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Quella che il re, filosofo e buffone, ci comunica con un niente per la vitalità artistica sorprendente di un esercito di ragazzi che portarli così bravi sul palco fa ricciar la pelle e guadare oltre come un falco. Li cito adesso uno per uno, senza valutarne la singola bravura, ché quella del regista é d’averli messi dentro parti uguali a rappresentar se stessi negli ideali. Essi sono: Karola De Tommaso, Valentina Mazzei, Carlotta Abbronzino, Marianna Greco, Laura Zinni, Giulia Petrolo, Matilde Abbronzino, Nairi Montesano, Chiara Tallini, Giorgia Mirante, Davide Colicchia, Marta Anzalone, che per mano hanno tenuto, come un aquilone, i tanti bambini che hanno “ uraganato” la scena battendo i piedi sulle tavole come i tangheri i tacchi sull’amore figurato. I loro nomi, presto detto, che dei loro genitori sento da qui il loro battito in petto: Gaia Anzalone, Giorgia Pietramala, Elisa Argentieri Piuma, Sofia Trovato e Giorgia Procopio, la Alice di ogni nostra giovinezza trattenuta nella nostra dimenticata bellezza. E non son mancati quelli grandi, Ludovica Romani e Pasquale Rogato, gli attori già veri che sanno emozionare gli animi più sinceri. Che dicono, allora, quelle pietre più che le parole dei protagonisti, che si muovono contro il male, che pur se viene da lontano e ha un volto che non si vede e porta un nome che non ha, è tanto vicino a noi che sembra dimori qua? Dicono che per ristabilire tra gli uomini la giustizia, la Pace e la libertà, beni violati da chi ha ucciso per il cieco profitto la verità, occorre tornare indietro, fare più di un salto tra le false civiltà. Quelle pietre sono la nuova città che da quelle buone sorgerà. Ogni pietra è un elemento della natura scomparsa e un sasso fondativo della ricostruita umanità. È l’albero, che abbiamo abbattuto, come il mare che abbiamo sporcato e il fiume che nello stesso abbiamo annegato. È le colline che abbiamo demolito per metterci scimmiottature di città che, al chiuso d’aria e di cielo, tutto, illudendoci, ci dà. Ogni pietra prende il posto di un campo di grano consumato, di un granaio sostituito da un enorme deposito d’armi, che ai popoli affamati al posto del pane, del vino, dell’acqua e dei pesci, dell’aratro e delle lampare continuiamo a dare, insieme al virus più disarmato e mortale. Ogni pietra fredda, qui, sul palco della scena, invece dona calore e la vita riapre alla speranza e all’amore.

La vera rivoluzione é nel cuore dell’uomo non nel cannone. A portarla, come in questa narrazione de “La Città delle Pietre”, sono quelli che hanno ancora il cuore puro e la mente libera da idoli malati e idolatrie malsane, corrotte fin dentro i rintocchi di certe campane. Sono i nostri bambini e i nostri ragazzi che da quelle pietre faranno sorgere la nuova Città, quella che ha bisogno di tutti e di tutto il buono che pure ancora c’è nell’uomo. Ma non ci riusciranno da soli, ci vuole un elfo che dalle stanchezze li riposi e dalle paure li consoli. L’elfo dell’altra sera è una figura magica, ben coperta dal suo manto che le voci della vittoria trasforma in canto. La canzone sulla scena non c’è ma si sente in note l’anima del re. Se avesse potuto, tra lacrime e sorrisi in mezzo ai “ fiordalisi”, quel suo elfo sarebbe stato De Andrè, ma un altro uomo grande e disarmato in giro per le rovine di questo mondo in vita c’è. Il buffone l’ha preso con sé. Io non so se è Lui, l’uomo che il filosofo che ha evocato tra il profano e il cristiano. Così mi par di sentire e questo mi par di vedere in quell’uomo vestito di bianco, che nella Città delle Pietre ripara bellezza e amore e se li tiene a fianco. Dico il nome se non è un azzardo, Francesco e il suo stendardo. Io non sono un critico di quelli che san tutto giudicare, ma nella Città delle Pietre, sebben ridotta, io ci ho visto un oceanico mare in cui più sicuro puoi navigare. Non è una sorta d’arca di Noè, che spunta tra una parolaccia e un caffè al bar dei soliti tre. É un sentimento, una luce, una speranza che si fa sostanza del nostro agire, ché dei sognatori è l’avvenire. Di quelli che fan la rivoluzione senza neppure conoscerne la direzione, ché muover le gambe e andare, muover le braccia e nuotare, guardare il cielo e amare, è cosa semplice che tutti, grandi e bambini, possiamo fare. Nella Città delle Pietre, quel poeta che l’ha scritta, nella notte in cui smette i panni del filosofo, del buffone e del re, ci insegna a farci bambini, a ricordarci non di esserlo soltanto stati ma di esserlo sempre. Di esserlo ancora, di ritrovarci bambini ora.

E adesso che di chiudere questo mio dire devo, per vincere la vergogna di essermi inventato poeta, anche se solo per far riposare il mio animo che ancor non si quieta, voglio parlare al re, al filosofo e al buffone, per dirgli grazie. Così semplicemente. E con tutto il mio cuore e la mia mente. Grazie di essermi re, guida sicura e saggia in questo tempo che fa della mia Città l’ultima spiaggia. Grazie di essermi filosofo, dal pensiero semplice e profondo, che ancora persuade che il mondo sia rotondo e che in questa sua forma ci sia il movimento del suo essere perfetto e il suo godimento. Grazie infine per essere il buffone, un po’ Dario Fo e un po’ Pappagone, che mi fa ridere e piangere, pensare e sognare, silenziare e urlare. Come hai fatto ieri sera, quando t’ho visto carezzare con le mani e gli occhi e le parole, i volti dei tuoi ragazzi e gli occhi nostri, le tavole del palcoscenico e le pareti della sala. E il volto di chi sai tu, quando il tuo sguardo a tratti saliva su, in alto oltre il soffitto del teatro dove avrai sicuramente dipinto un tuo segretissimo quadro. E grazie grazie mille volte ancora, perché tu non sei solo il re il filosofo il buffone. Tu sei assai di più, sei il catanzarese che la Città porterai in Salvo. Non sei solo lo scrittore il poeta il regista e l’attore. “Sei infinitamente di più, sei Salvatore.” 

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