di FRANCO CIMINO
Oggi è la giornata mondiale della Terra, la cinquantunesima da quando è stata introdotta nel lontano millenovecentosettanta allo scopo, qui come per tutte le giornate di cui il calendario civile è strapieno per altre tematiche, di sensibilizzare quanta più gente possibile al dovere di proteggere la Terra da qualsiasi rischio e dal pericolo costante di subire la distruzione delle sue preziose risorse. Ogni anno, il 22 aprile, alla Terra è dedicato un teme specifico diverso. Quello di oggi non fu mai così appropriato:” riparare il danno.” La ricorrenza odierna, pertanto, non è una festa e nulla celebra di gioia e di contemplazione trionfante. Fa riflettere sul dolore che urla rabbia e di pianto fa lacrimare l’altro elemento danneggiato, il cielo e il clima che lo ristora. Questa giornata, come quella dell’anno scorso, scorre lungo il dramma più devastante dal secondo dopoguerra in poi. Quel dramma che già gravemente ferisce il secolo nuovo che avrebbe dovuto essere quello della fine di ogni guerra e di ogni arretratezza sul cammino del Progresso. Solo ventuno anni fa abbiamo salutato l’avvento del terzo millennio come il tempo della Vita. Quello in cui l’avanzare impetuoso della tecnologia avrebbe cambiato direzione per andare incontro finalmente all’uomo e alla sua umanità smarrita.
Il terreno privilegiato di questo cammino, la scommessa, diciamo, dell’essere umano sulla sua stessa natura, avrebbe dovuto essere la Terra con la riscoperta di tutti i suoi incommensurabili beni. Questo impegno, in quanto finora mancato, ce l’ha ricordato Francesco, il Vescovo di Roma, con le sue due ultime encicliche, nelle quali la Terra, quale dono di Dio agli uomini per vivere felici, viene rappresentata e quale luogo del più grande peccato consumato( la distruzione della Natura) e quale spazio privilegiato per la redenzione attraverso la riparazione appunto del danno provocato ad essa. E quindi alla Natura. Alla Vita. All’uomo stesso, essenza della Vita e primo destinarlo di ogni bene che la Vita alimenta, tutela, conserva. Il dramma del ventunesimo secolo si chiama Covid diciannove, che in qualunque modo lo si voglia interpretare, valutazioni scientifiche comprese, sempre più appare come un’altra forma di ribellione della Natura nei confronti della stupidità umana che continua a violentarla. Una guerra bella e buona, che le nazioni, e le potenze in esse, non riescono a vincere, pur con l’immenso armamentario impiegato, semplicemente perché non l’hanno capita. E non l’hanno capita perché disorientati dall’invisibilità del nemico, che cambia repentinamente ogni qualvolta l’uomo pensa di averlo dominato con i soliti due schiaffi e via.
L’uomo antropologicamente ha sempre avuto paura dell’invisibile, del fantasma, di tutto ciò che non può mettere in laboratorio o manipolare con le sue mani, come da sempre fa con la creta e con le torture nei confronti degli uomini liberi. Oggi ha paura anche dell’ombra di dietro. Con tutta la sua scienza e potenza, non riesce a comprenderla. Forse è il senso di colpa che lo rincorre per avere oscurato la luce sulla Vita. L’uomo adesso ha paura e impreca contro un virus probabilmente tra i meno forti tra quelli che periodicamente, e per la stessa più intima ragione, lo persegue. Ha paura della morte. In tutto il mondo il Covid ha finora causato di tre milioni. Ma non è di questo numero globale che è spaventato. Lo guarda esattamente come i numeri delle altre due guerre ancora in corso, le guerre degli altri: la fame e quelle guerreggiate in regioni lontane. Con indifferenza. “Non è fatto nostro, se la sbrighino loro”.
Non è così che ci viene da dire? La morte che di più ci interessa oggi è quella più prossima, la morte che si avvicina a noi, quando tocca le nostre case e di più la probabilità che si avvicini alla nostra persona. È tanta questa paura, che ci siamo fatti prendere anche dal panico per i rischi di alcuni vaccini, che fanno più temere la più innocua iniezione che il virus stesso. La paura più grande, però, ben retoricamente utilizzata dai mass media, è quella della denunciata perdita delle libertà individuali( da cosa, da chi, perché?). Insieme a questa si agita quella di una povertà generalizzata. Come si vede guardiamo sempre all’io individuale e al ristretto spazio “ domestico” in cui esso si muove. Alla Vita, assai poco. Alla morte e alle immani sofferenze( degli altri), quasi per niente. In Italia, il suo nome porta un munero tragico, centoventimila, ad oggi. Il dolore e il pianto restano solo nelle case di chi l’hanno vista passare, la morte. I numeri che ci interessano sono solo quelli del rapporto contagi- tamponi. Non quelli dei contagiati, che circolano come armi puntate alla schiena di almeno dieci altri simili per ogni contagiato. Il numero che più ci rallegra, è quello del calo di poche decine al giorno nelle terapie intensive. Fingiamo di non capire che quel numero “ positivo” non riguarda sempre chi non entra o ne esce salvato, ma quasi sempre chi non ce l’ha fatta e da lì è stato spostato nel numero più tragico. Chi mi legge in questa riflessione penserà che sono uscito fuori traccia rispetto alla “ festa” odierna, e si domanderà:” ma che c’entra la Terra con la pandemia?” C’entra, eccome, invece! La realtà odierna, per quello che gli scienziati hanno accertato essere stato il modo di trasmissione del virus( dall’animale all’uomo, come tutti i precedenti diversi), è provocata da un altro danno inflitto alla Terra. Disboscamento continuo, antropizzazione degli spazi naturali violentati, accorciamento, nei molteplici modi conseguito, delle distanze tra gli esseri umani e gli animali, inquinamento delle acque e dell’aria, accresciuta asciuttezza di estesi territori e aggravata quella dei già conosciuti, specialmente in Asia e in Africa. Tutto questo è causa della pandemia che ha colpito il pianeta. Celebrare oggi la giornata della Terra deve comprendere una grande sensibilità ed una nuova presa di coscienza.
La sensibilità di piangere con la Terra, accanto ad essa, del suo stesso dolore. Lacrime vere per la Vita che ci sta sfuggendo di mano mentre dagli occhi la sua magnifica bellezza si allontana. Dolore per i danni arrecati alla Terra e alla Persona, le due facce della Vita. Presa di coscienza che continuare a rubare alla Terra, e al cielo che ne è il tetto, ciò che le appartiene equivale a diffondere la morte come elemento necessario alla vitalità delle economie globali e all’imperio violento dell’egoismo stupido che le governa con il crescente possesso nelle mani di pochi delle ricchezze del pianeta. Presa di coscienza, da trasmettere alle nuove generazioni, che nessuno può possedere, in tutto o in parte, alcun bene di cui la Terra è ricca. Di cui la Terra si nutre. Di cui la Terra è madre, parimenti di come lo è di ogni singolo uomo. Presa di coscienza che solo realizzando “ la fratellanza” tra l’Essere umano e la Terra, può rinascere una nuova cultura della Vita. Nella quale c’è davvero tutto: la giustizia sociale, lo spirito di eguaglianza, la tutela della libertà( della persona, dei territori e dei popoli), la Natura e il genio creativo dell’individuo. Ci sono pure gli elementi fondamentali per la costruzione di un muovo modello di sviluppo fondato sul più corretto, ed ecologico, uso delle risorse del pianeta unitamente ad una libera capacità imprenditiva che crei vera ricchezza sociale. Quella equamente distribuita tra chi la crea in tutte le sue componenti e i bisogni dell’umanità. Ché la Terra è l’Umanità che le palpita dentro.
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