di FRANCO CIMINO
Dicono che si chiamasse Joseph (un nome inglese e non africano),che era un maschietto e non una bambina. Dicono che avesse appena sei mesi, che sia stato strappato dalle mani della madre a causa dello più alta e forte onda, che in quel mare già insidioso, si è levata prepotente facendo poi ribaltare quel vecchio gommone dove stavano stipati non si sa bene quante persone. Tante, dicono. Forse settantacinque, forse cento. Dicono che ne siano morti sei di quel numero. Lo dicono le televisioni, che mostrano, però tra le seconde notizie, scene che abbiamo visto mille volte in questi anni. Immagini vere, ci portano la disperazione e la morte in diretta. La disperazione e la morte degli altri, quelli che neppure un poco ci somigliano. Due le immagini più intense, quei corpi che si agitano nell’acqua tra altri distesi e immobili con le braccia aperte, la posizione che assumiamo tante volte noi quando vogliamo prendere inerti il sole nel mare.
Da bambini la chiamavano “del morto”, forse ancora oggi chi vi gioca d’estate. Credo che faremmo bene a cambiarne la denominazione. L’altra immagine, ci mostra una giovane donna che, disperata, urla “ i lose mi baby”, tradotto “ perdo il mio bambino”. Quel bambino era il suo, quella disperazione era la sua. Quell’immane dolore è il suo. Tra queste due immagini se ne vede una terza che ambedue anima di un sentimento altro e che quel mare, apparentemente cattivo, collega a questa terra profondamente ingiusta. Sono i soccorritori, quelli che portano le tute arancioni sopra le quali indossano un pettorale rosso, lo stesso che lanciano in mare, il salvagente. L’arancione e il rosso sopra quell’azzurro intenso, sono le macchie di colore che dai droni rimbalzano sui nostri video e, per scherno della vita, si mostrano come un bellissimo manto. Quello che vorremmo indossare nelle sere umide. Ovvero, un dipinto o un bel tappeto, che vorremmo avere in casa. In quelle immagini abbiamo visto quei “ soldati” della pace gettarsi in mare per recuperare Joseph e poi tentare disperatamente di rianimarlo. Il loro dolore di non avercela fatta, abbiamo visto. E le loro possenti braccia, consegnarlo a quella madre “ impazzita” di dolore, abbiamo visto. Le stesse braccia che l’hanno tenuta avvolta strettamente per non farla morire di tormento e di senso di colpa, abbiamo visto.
Ci somigliano fisicamente quegli uomini e quelle donne arancioni, ma non sono come noi. Non vivono con noi. Sono sempre lontani. Troppo, da noi. In quel mare assai distante da noi. Li chiamiamo uomini, come noi pure ci chiamiamo. Ma non sono noi. Sono di un’altra razza, quella umana. Una volta vi appartenevamo pure noi. Ma, a forza di dividerla in tante altre, distinguendole dapprima, e per lungo tempo, per il colore della pelle, e dopo, in questo breve di passaggio, in due soltanto, quella dei pochi ricchi e quella dei quasi tutti diversamente poveri, abbiamo smarrito la nostra qualità naturale, l’essenza umana di quella appartenenza. Siamo diventati, quelli da questa parte di ogni mare, un’altra cosa, imprecisata, confusa, spaventevole. Potremmo chiamarci gli esseri subumani della nuova indifferenza. Gli “aemotivi” e gli anaffettivi del terzo millennio. A forza di non sentire il dolore degli altri non riconosciamo il nostro, di non capire la povertà degli altri non capiamo la nostra, di non vedere la paura degli altri non vediamo la nostra, di non ribellarci alla morte ingiusta degli altri non vediamo quella vicino a noi. L’unica cosa che ci tormenta è solo l’incertezza, che ormai inonda ciò che resta del nostro vivere. Ci procura insonnia ciò che non vediamo, di cui non conosciamo l’origine, le intenzioni, cosa voglia e dove voglia arrivare. Solo questo ci angoscia. Le sue conseguenze, ci lasciano quasi indifferenti. Per difendercene, sul piano di una psicologia empirica ci siamo inventati una sorta di ottimismo comparativo. Lo stesso che, in qualche modo, ci ha fatto (non)vedere in questi ultimi vent’anni le tragedie del mare. Ovvero, fingere di non conoscere quelle non viste. O che non ci hanno fatto vedere. Non abbiamo voluto vedere. Si muore di fame, lontano da noi.
A noi non può capitare. Le guerre, tutte, si combattono lontano da noi. Noi non le subiremo. Il terrorismo che insanguina le strade di molte città, non riguarda noi. Tutto il male che procura dolore e morte e guerra e fame e ogni miseria, non ci appartiene neppure un po’, soltanto perché non lo sentiamo. Oggi ci angoscia solo il Covid, questa cosa invisibile, intelligente e vigliacca. Ci spaventa, paradossalmente, solo il pensarlo invincibile in quanto più intelligente anche degli scienziati. Lui, questa cosa inutile che sopravvive, e più forte si presenta, alle centinaia di corazzate potenti e al bombardamento più grande della storia. Lui, questo mostriciattolo milioni di volte più piccolo di una formica, che è più potente e veloce dei motori che portano l’uomo nel cosmo e fin quasi su Marte, ci tormenta. Solo questo, non le stragi e le rovine anche materiali che procura. Tutta la sofferenza non ci appartiene, riguarda gli altri. Quelli che i notiziari della sera trasformano in numeri e statistiche.
Noi non abbiamo più paura, semplicemente perché non la sentiamo. Noi siamo diversi. Apparteniamo a un’altra razza, non più a quella umana.
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